MAURIZIO BLONDET

CHI COMANDA

IN AMERICA

 

 

 

 

Maurizio Blondet, già inviato speciale per li Giornale Nuovo e attualmente per Avvenire, si dedica ormai da anni all'indagine sui poteri oligarchici che, agendo dietro le quinte della democrazia; guidano la storia (e la cronaca politica presente). -ha scritto, tra gli altri, "I fanatici dell'Apocalisse" (ed. Il Cerchio), 'Complotti vecchi e nuovi" (ed: Il Minotauro), "ll Collasso" (ed I Minotauro), "Gli Adelphi della dissoluzione" (ed. Ares) 'No Global" (ed. Ares), "I Nuovi barbari" (ed .Effedieffe), "Cronache dell'Anticristo (ed. Effedieffe), "L’uccellosauro ed altri animali. La catastrofe del darwinismo" (ed. Effedieffe); autore di centinaia di articoli su giornali e riviste, come per esempio "Studi Cattolici", dirige, assieme a Siro Mazza, la rivista trimestrale "Certamen “(ed.Effedieffe).

 

 

 

 

 

 

 

 

EFFEDIEFFE

Finito di stampare nel mese di dicembre 2002 dalla Fotolito Graticolor
Città di Castello (PG)


 

Capitolo I
IL COMPLEANNO MOBILE

"Vi voglio dire una cosa molto chiara: infischiate­vi delle pressioni americane su Israele. Noi, gli ebrei, controlliamo l'America. E l'America lo sa".

(Ariel Sharon)

Nel 1978 la Camera dei Rappresentanti (la camera bassa statuniten­se) proclamò l 'education day Usa, ossia il "giorno dell'istruzione": in coincidenza con, e a celebrazione del, settantaseiesimo complean­no di rabbi Menachem Mendel Schneerson, il cosiddetto "rebbe" dei Lubavitcher. Almeno, ciò è quanto sostiene il sito web dei Lubavitcher stessi ': setta hassidica (che si autonomina Chabad o Habad), che con­sidera il suo rebbe il vero messia: "Il presidente Jimmy Carter firmò la legge relativa, e l 'education day Usa è diventato una tradizione an­nuale"

Dunque una festa nazionale e civile americana è stata creata in onore del messia-re di una setta ebraica? La cosa è inverosimile. Al punto da pro­vocare incredulità. Invece, dopo Carter, il successivo presidente Ronald Reagan non lasciò cadere la "tradizione". Anzi. Nel 1985 anch'egli pro­clamò il national education day: confermando che esso era indetto "in onore del suo [del rebbe] 83mo genetliaco, che quest'anno cade il 2 apri­le" . Nel '91, anche il presidente George Bush (padre) celebrò con il Congresso il national education day, ponendolo quell'anno il 26 marzo; bella tradizione che il presidente George Bush figlio ha ripreso e trasfi­gurato in un "national education and sharing day" (giorno dell'istruzio­

 

 

1 Vedere sul world wide web, "chabadcenter.org/dedication.htm".

 2 Sempre sul www, si vada all'indirizzo "ukar.org/gore10.shtml".


 

ne e della condivisione, nel senso del compassionate conservatism neo­repubblicano) nel 2002, per l'esattezza il 24 marzo'.

Potete non crederci. Ma si dovrà per forza notare che questa festività ci­vile americana, come una strana Pasqua, è una festa mobile: un anno cade il 26 marzo, un altro il 24, un altro il 2 aprile. Perché? Ovviamente per­ché i Lubavitcher rifiutano il calendario giuliano e cristiano, e si attengo­no al calendario lunare giudeo-babilonese: per questo il genetliaco del veneratissimo rebbe non è fisso.

Dunque gli Stati Uniti d'America, tradizionalmente gelosi della loro lai­cità, hanno adeguato una festività civile alle esigenze rituali di una setta ebraica fondamentalista, in onore di uno tzaddik hassidico che i suoi fe­deli credono il messia: morto centenario nel 1994, ma di cui si attende il miracoloso ritorno.

Può darsi non abbiate mai sentito parlare dei Lubavitcher, ossia Chabad''. O che li abbiate sottovalutati, prendendolo per uno degli infiniti "culti" che pullulano nella libera America (il quartier generale ha sede a Broo­klyn, New York). Errore. Il Jerusalem Post (19 ottobre 2001) informava:

"Chabad è una forza potente: 2600 istituzioni in tutto il mondo, un vasto numero di rabbini capaci di parlare inglese, controllo della maggior par­te dell'ebraismo in Italia e del rabbi nato-capo in Russia (il solo bilancio russo del movimento ammonta a due milioni di dollari). E un'organizza­zione che dispone di immense risorse finanziarie (...] Di fatto, Chabad è un movimento dì importanza monumentale. Ebrei osservanti sono profon­-

Si veda il comunicato sul sito ufficiale della Casa Bianca: "whitehouse.go/news/re­leases/2002/03/20020325-4.html".

' "Chabad" (a volte pronunciato Habad) è un acronimo delle tre parole ebraiche choch­ma, binah e daas, ossia "saggezza, comprensione e conoscenza". "Lubavitch" è il nome del villaggio (in Lituania) dove il movimento pone la sua culla, nell'800. Dottrinalmen­te, lo Chabad è un ramo dell'hassidismo, impropriamente detto "misticismo" ebraico, perché poneva l'accento sulla redenzione individuale dei fedeli (attraverso la mediazio­ne di un "messia locale" detto tzaddik) anziché sulla redenzione storica, messianico-ri­voluzionaria, dell'intero popolo eletto. Oltre che sul Talmud e sullo Zohar (il più impor­tante libro della Kabbalah), i Lubavitcher giurano sul Tanya (o Hatanya), il libro scritto da un rabbi Shneur Zalman.


 

damente dipendenti dai suoi emissari in tutto il mondo (...] i suoi rabbi dominano o stanno per dominare le comunità ebraiche in un numero stu­pefacente di paesi".

La Jewish Virtual Library s fornisce altri particolari. "Più di 3700 coppie emissarie o missionarie operano in oltre cento Paesi del mondo ...2600 istituzioni (seminari, campi-scuola, scuole, ecc.) sono sparse nel mondo. Secondo la direzione del movimento, circa un milione di bambini [ebrei] hanno partecipato alle attività di Chabad nel mondo nel solo 1999".

Ma tali fonti tacciono l'elemento più importante, e allarmante, del pote­re della setta.

I Lubavitcher sono profondamente interni alle istituzioni politico-milita­ri degli Stati Uniti, che influenzano attivamente. Essi hanno accesso im­mediato e continuo al presidente George Bush: il segretario alla stampa e portavoce del governo Bush, Ari Fleischer, un ebreo riformato, è co-pre­sidente del "Forum del Campidoglio" dello Chabad. Il vice-segretario della Difesa, il `falco" Paul Wolfowitz, è un ammiratore dei Lubavitcher, così come Dov Zackheim, Comptroller del Dipartimento Difesa (e rab­bino ortodosso), e Stuart Eizenstat, già vicesegretario al Tesoro. Aperto sostenitore di Chabad è il senatore del Connecticut (democrati­co) Joseph Lieberman, ebreo ortodosso, che è stato candidato alla vice­presidenza degli Usa a fianco di Al Gore. Il senatore del Michigan (de­mocratico) Carl Levin, presidente della Commissione Forze Armate del Senato, ha celebrato gli "ideali" della setta in un discorso al Senato. Tutti costoro, insieme a tutti i membri ebraici del Congresso, assistono regolarmente ai seminari tenuti a Washington da un rabbino Lubavitcher. Questo rabbino, giovane, pallido, dalla grande barba nera, si chiama Levi Shemtov. Le sua attività nella capitale sono state segnalate dal Washin­gton Post (3 luglio 1999, Hasidic Outpost in D.C.):

' V. sul www il sito "us-israel.org/jsource/Judaism/Lubavitch__and_Chabad.html".

 


 

"Gli American Friends of Lubavitch hanno aperto a Washington un cen­tro da 2 milioni di dollari nel quartiere delle ambasciate, ciò che conso­lida la presenza della setta hassidica nella comunità diplomatica e ac­cresce la visibilità del suo direttore, Levi Shemtov, che già molti conside­rano il rabbino non-ufficiale del Campidoglio.

"I washingtoniani che lo frequentano conoscono Shemtov per la sua at­tività nell'ambiente politico. Egli incontra regolarmente i membri ebrei del Congresso e del personale, quasi sempre su loro richiesta, e tiene, ogni mese o due, i Capitol Jewish Forum su temi come l'etica, le tradi­zioni festive e i rapporti tra religione e governo. Il senatore [repubblica­no] Cardin, 55 anni, definisce Shemtov una ricchezza per i membri del Congresso e del personale ebraici".

Non importa che la maggior parte degli ebrei americani appartenga uffi­cialmente all'ebraismo "riformato", "ortodosso" o "conservatore", grup­pi che erano fino a ieri alquanto laici, se non progressisti, profondamente influenzati dal protestantesimo anglosassone. I Lubavitcher, mentre pre­dicano e praticano la più rigorosa separazione dai "gentili", verso gli al­tri ebrei sono "integrazionisti", e il loro messaggio è rivolto a tutti loro, senza distinzioni settarie. È questa la loro novità, e parte essenziale della loro forza politica. Convinti che il messia sia qui, chiamano gli altri giu­dei all'unità dei figli di Abramo nel momento storico del coronamento del loro sogno millenario. E come si vede, le componenti liberali dell'ebrai­smo Usa rispondono docilmente al richiamo. Dato il conformismo e il ferreo controllo reciproco vigenti nella comunità ebraica, il Centro Lu­bavitcher di Washington, coi "seminari" mensili di rabbi Shemtov, fun­ziona come organo di sorveglianza politica delle componenti moderate del giudaismo, allineandole sulle posizioni millenaristiche e oscurantiste della setta.

Come piccolo esempio dell'influenza di Shemtov, il Post fornisce il se­guente episodio:

"Lo scorso settembre, quando i leader repubblicani della Camera fissa­rono la data della votazione per l'impeachment del presidente Clinton durante un'alta festività ebraica, Shemtov andò a trovare nel suo ufficio


il senatore Richard K. Armey (R-Texas) e lo convinse a cambiare data",

L'episodio non è tanto minuscolo: gli Usa attraversavano una crisi costituzionale per discutere la quale il Congresso aveva messo da parte tute gli altri argomenti di discussione; gli Usa sono un regime che bada a tenere gelosamente separate stato e religione; e tuttavia un rabbino trentenne convince il Senato a spostare la data di una votazione cruciale, per "rispetto alla religione ebraica".

Ma questo è niente: come vedremo, ben altra ampiezza ha il potere Lubavitch su Washington. Per cui sarà bene vedere da vicino che cosa sono "l'etica" di Chabad, o quali concezioni la setta ha delle "relazioni tra governo e fede" su cui il suo rabbino istruisce ogni mese o due gli ebrei de Congresso, evidentemente perché applichino queste concezioni alla politica del giorno per giorno. Ma per questo, dobbiamo illustrare bene L "teologia", o più precisamente l'ideologia, del potente movimento.


 


 

 

Capitolo 2
INTEGRALISMO ESTREMO

"L'intera creazione esiste solo per il bene degli ebrei" (rabbi Schneerson)

Nel 1964 il rebbe dei Lubavitcher, Schneerson, scrisse una lettera ai fe­deli per condannare i matrimoni fra ebrei e non-ebrei (che egli bollava come "cremazione spirituale"). In quella lettera, che i seguaci conside­rano come un'enciclica di valore dogmatico, fra l'altro definiva i concet­ti di libertà, eguaglianza e integrazione - ossia i valori fondanti degli Stati Uniti - "ideali malposti". Il rebbe sostiene infatti la necessità politica del­la segregazione razziale, come ha denunciato Israel Shahak, il quale ri­porta uno scritto rivelatore di Schneerson:

"La differenza tra un ebreo e un non-ebreo si comprende alla luce del­la nota espressione [talmudica]: differenziamoci. Dunque, non abbia­mo qui il caso di una persona che sia solo di livello superiore all'altra. Invece abbiamo il caso del differenziamoci tra specie totalmente diver­se. Il corpo di un ebreo è di qualità totalmente diversa dal corpo di ogni altro individuo delle nazioni del mondo. [. ..] L'intera realtà non-ebrai­ca è solo vanità. Sta scritto: "E gli stranieri cureranno le vostre greg­gi" (Isaia 61:5). L'intera creazione esiste solo per il bene degli ebrei . Simili concezioni non sono nuove nell'ebraismo. Tuttavia, varrà la pena di sottolinearlo, esse sono contrarie ai principi della Costituzione ameri­cana. Esse sono in evidente contrasto rispetto alle grandi lotte della sto­ria nazionale Usa, dalla guerra contro lo schiavismo fino alle campagne

 

 

 

 

 

 

 

 Israel Shahak e Norton Mezvinsky, Jewish fundamentalistn in Israel, Londra, 1999.


 

per l'integrazione dei negri negli anni `60. A quelle campagne anti-segre­gazione partecipò allora in massa la gioventù ebraica americana, che era liberal, cioè di sinistra. Il fatto che ora la comunità giudaica accetti in massa il verbo dei Lubavitcher dice quanto la mentalità collettiva degli ebrei americani sia mutata.

Idee razziste e segregazioniste possono esprimersi liberamente in Usa, dove la libertà di opinione è sancita costituzionalmente: il Ku Klux Klan e i White Supremacists non sono dichiarati fuorilegge. Ma, almeno, non frequentano ostentatamente il Congresso e non tengono seminari mensi­li sui loro "ideali" ai senatori. Ancor meno, i razzisti bianchi sono rice­vuti e celebrati dal Presidente, né le loro idee avallate ufficialmente, come è accaduto ai settarii giudaici:

"Il presidente George Bush ha ricevuto una delegazione di dieci impor­tanti rabbini e funzionari del movimento hassidico Lubavitch alla Casa Bianca. L'incontro, durato 90 minuti, ha avuto luogo nel quadro degli eventi organizzati dal movimento per il centesimo genetliaco del defunto Rebbe Menachem Mendel Schneerson j... J Bush ha posto la sua firma al documento che dichiara il compleanno del defunto rebbe giorno dell’istruzione e della carità. Rabbi Shemtov ha ringraziato il Presidente per il suo appoggio ad Israele e gli ha donato un Hagaddah pasquale" (Haa­retz, 26 marzo 2002).

Dunque, i custodi della Costituzione della unica superpotenza mondiale s'inchinano davanti all'esclusivismo giudaico più estremo. Ciò non può non avere inquietanti ricadute politiche. Il potere istituzionale americano subisce l'influsso di una setta in cui il primitivismo biblico si intreccia a un fondamentalismo da telepredicatori, e un messianismo aberrante si coniuga con un attivismo molto "americano".

David Banon 2 definisce la teologia dei Lubavitcher un monismo panen­teistico', "caratterizzato dal rifiuto della dicotomia tra sacro e profano,

2 David Banon, Il Messianismo, Giuntina, 2000, p. 116

3 Sottilmente, il pensiero ebraico rifiuta il panteismo ("Tutto è Dio") per accettare il pa­nenteismo ("ogni realtà è in Dio"): sul piano politico, questa concezione si traduce nel­


 

tra spirito e materia, tra Dio e mondo". Esso "concepisce tutta la realtà come esistente in Dio e di conseguenza la vera realtà è il divino". Si ri­conoscerà qui un integralismo totale, di fronte a cui impallidisce quello islamico, che oggi è di moda satanizzare. Il rifiuto della dicotomia fra "dio e mondo" fonda il rifiuto della separazione tra azione e politica, in modo radicale: per i Lubavitcher, ogni azione politica, anche machiavel­lica ed eticamente aberrante, è "sacra" se compiuta da ebrei, perché è "servizio a Dio".

Per i Chabad "non c'è luogo o sfera della vita che sfugga all'azione reli­giosa", dice Banon: ciò significa che, per i Lubavitcher, l'azione politica è direttamente azione religiosa. Da qui l'attivismo missionario della set­ta, fatto senza precedenti storici nel mondo ebraico. I missionari (o emis­sari, shlichim) dei Lubavitcher non mirano alla conversione dei gentili: come abbiamo visto, anzi, la setta "eleva una barriera ontologica tra ebrei e nota ebrei", riservando agli ultimi un destino inferiore nel "Regno", dove essi saranno i servi-pastori del popolo eletto e, come vedremo, sog­getti all'autorità penale rabbinica. Lo sforzo missionario e il proselitismo di Chabad è esclusivamente mirato agli ebrei: i vari gruppi in cui la co­munità è frazionata in America, riformati, ortodossi o conservatori, sono chiamati a partecipare all'ebraismo integrale che la setta crede di incar­nare, in vista dell'imminente avvento del messia. Ogni dissapore e ogni scontro interno alla comunità, per Chabad, deve terminare nell'unità davanti alla prospettiva del "Regno" che sta per ve­nire, e nella consapevolezza del "carattere intrinsecamente divino dell’anima ebraica".

Altrove ' ho ricordato come lo hassidismo polacco e lituano creò il culto degli tzaddik, "mediatori" tra la comunità e Dio. Nelle pianure sarmati­che ogni piccolo villaggio giudaico, ogni gruppo di luride isbe hassidi-­

 

 

l'accettazione del sionismo ateo: "Per far venire l'era messianica è necessario passare attraverso il profano nella sua lotta contro la religione e la spiritualità, e anche attra­verso la profanazione" (David Banon, cit., p. 107). 11 panenteismo sbocca dunque in un immoralismo radicale.

 

4 M. Blondet, Cronache dell'Anticristo, Effedieffe, Milano, 2001, p. 48.


 

 

che ebbe il suo tzaddik, venerato come un messia. Piccoli messia locali, rabbini cui si attribuivano poteri taumaturgici, che vendevano amuleti, che i fedeli ricoprivano di doni e di cui si narravano ammirati le gesta (specie sessuali), da cui si andava in pellegrinaggio. La visita ai più stimati tzad­dik sostituiva il pellegrinaggio a Gerusalemme; e ogni villaggio ebraico diveniva Gerusalemme. In tal modo lo hassidismo illusoriamente placa­va la sete del messianismo vero - il ritorno alla terra d'Israele e la con­quista del mondo sotto la guida del "Re" - i cui effetti erano stati rego­larmente disastrosi nella storia giudaica. Il culto dello tzaddik, mescola­to ad ogni genere di credenze discutibili (fra cui la reincarnazione e il pan­teismo) e pratiche censurate dai rabbini ortodossi ("estasi" sessuali o al­cooliche) neutralizzava il pericolo del messianismo politico, tramutandolo nella preoccupazione per la "redenzione" individuale. Tale "redenzione" nulla ha in comune con il concetto di salvezza cristia­no, di santità. Ha invece riguardo al "riscatto" (tikkun) delle scintille di­vine che, secondo la gnosi kabbalistica, sarebbero sepolte ("esiliate") nella creazione, involte nella materia, e che il popolo eletto, con la minu­ziosa osservanza della "legge", aiuterebbe a far risalire in alto.

I Lubavitcher spingono questa pseudo-teologia usque ad absurdum. Per loro, lo tzaddik - o più esattamente la sua anima - ingloba le anime della collettività di Israele. Ogni anima, o almeno una scintilla di ogni anima di ebreo, ha il suo posto nell'anima dello tzaddik - che i Lubavitcher chia­mano il rebbe, e che identificano con il defunto Schneerson.

Perciò anche lo tzaddik è l'intermediario necessario tra l'uomo e Dio: da una parte Dio è talmente potente che bisogna proteggersene attraverso lo schermo di un mediatore; dall'altra l'essenza spirituale di ogni ebreo è in rapporto con lo tzaddik. In conclusione, nello tzaddik riposa "l'anima organica del popolo ebraico", la divinità collettiva di quel messia collet­tivo che è Israele.

L'auto-adorazione è un tratto costante della "religiosità" del popolo eletto. Per molti anni i rabbini Chabad se ne sono accontentati, rifiutando ogni ten­tazione messianica. Pesavano i "tre giuramenti rabbinici", uno dei quali vieta di accelerare l'avvento del "Regno" con il ritorno in massa nella terra


 

d'Israele. Nel 1904 il rabbino lubavitcher Dov Baer Schneerson (circa 1840-1908), antenato del rabbino di Brooklyn, si scagliava - come tutti i rabbini osservanti dell'epoca - contro i sionisti socialisti e materialisti che volevano fondare Israele come stato: "Tutto il loro coraggio, la loro astu­zia e i loro sforzi non avranno successo contro la volontà di Dio". Ma i successi politici sionisti, a poco a poco, hanno indotto il rabbinato a rivedere queste posizioni. Il primo rabbino-capo d'Israele, Abraham Kook (1865-1935) fu il primo a proclamare che gli empi sionisti agivano, a loro

insaputa, per la salvezza del popolo eletto voluta da Dio. "Tutti gli eventi conducono allo scopo, tutta la storia e i mutamenti dell'esilio della na­zione sono tappe nello svolgimento dell'azione divina". "I peccatori d'Israele [i sionisti] si impegnano in questo compito: dapprima se la prendono con la spiritualità separata dalla materia. La loro critica au­dace denuncia le sue menzogne e le sue mancanze... essi si rallegrano costatando la caduta dell'idolo della spiritualità" 5. La "spiritualità" è un "idolo", perché il "Regno" verrà materialmente: dunque si abbandoni ogni esitazione e si avanzi alla conquista dell'era messianica con tutti i mezzi. Anche i più illegittimi.

La dottrina di rabbi Kook sbocca dunque in un anti-nomismo (ogni legge può essere violata allo scopo di avvicinare il "Regno") e un imoralismo inediti, che hanno immediate ricadute politiche: non a caso alcuni noti allievi di rabbi Kook , Menachem Begin e Ytzak Shamir, fondarono il gruppo terroristico clandestino che gli inglesi chiamarono "Banda Stern", autrice di indiscriminati massacri di palestinesi. Il movimento Chabad si situa sul fronte estremo di questa avanguardia messianica. Per esempio, i suoi seguaci sostengono l'estremismo politi­co dei "falchi" israeliani, si oppongono al processo di pace e alla cessio­ne di terre ai palestinesi - anzi vogliono la loro espulsione in massa - per­ché "la coscienza messianica è una coscienza di progresso e di conqui­sta, non di arretramento e di spartizione" 6. Dunque è un irrazionalismo

s David Banon, cit., p.136. David Banon, cit., p. 124.

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integralista di tipo parossistico, un messianismo aggressivo e conquista­tore quello che ha accesso alla Casa Bianca e al Congresso, e che i parla­mentari apprendono nei seminari Lubvitcher.

Del resto, la setta è da anni elettrizzata dalla certezza nell'imminenza del "Regno". "Il re-messia può venire immediatamente, in un batter di ci­glia". "E poiché può arrivare in qualsiasi momento, egli verrà, senza dub­bio, in qualsiasi momento", sragiona un testo della setta citato da David Banon (p.121): "E stando così le cose, significa che il messia è realmen­te nel mondo ....ancor più, la sua presenza è attestata come presenza di un grande nella Torà, un re della casa di David che studia la Torà e adem­pie i precetti come il suo antenato Davide, secondo l'espressione di Mai­monide".

Il testo suggerisce, senza dirlo apertamente, che il messia "già tra noi" non è altri che il rebbe, Menachem Mendel Schneerson: discendente da sette generazioni di tzaddik (e sette è un numero magico), i suoi adepti non hanno risparmiato sforzi araldici per far credere che sia discendente diretto da David.

Lo slogan con cui i Lubavitcher accoglievano ogni apparizione di Sch­neerson il rebbe, "Il messia adesso" (moshiach now) ricalca curiosamen­te il grido di tante sette protestanti fondamentaliste americane, "Jesus  now", a dimostrare - se ce ne fosse bisogno - la natura spuriamente "ame­ricana" del movimento giudaico che si crede il più "puro". Così, le cam­pagne di stampa e pubblicità mondiali, con manifesti affissi nelle grandi città che "davano il benvenuto al messia" esibendo grandi foto di Schne­erson. Così la divulgazione di strambi "segni di conferma" sull'identità del messia ("si trova tra noi, un essere di carne e di sangue, un'anima e un corpo"): poiché Schneerson abitava al numero 770 di Eastern Parkway, Brooklyn, la setta si precipitò a proclamare che 770 è il valore numerologico delle parole "bet mashiach", casa del messia. Nemmeno la morte, come un normale essere umano, del rebbe Schneer­son all'età di 98 anni ha calmato gli ardori messianici dei Lubavitcher. I

suoi adepti più ferventi citano il Sanhedrin (98b), "Se è tra i morti, è Da­niele", per suggerire che il messia può ben trovarsi tra i morti, eppure pre­-


 

parare il "Regno". In Usa come in Israele, la setta continua ad usare tutte le sue attività, potere e denaro per prepararlo.

Con tutti i mezzi. Non esclusi quelli criminali. Varrà la pena di ricordare che era un Lubavitcher quel Baruch Goldstein, fanatico israelo-america­no che nel 1994, ad Hebron, massacrò a raffiche di mitra 29 musulmani in preghiera nelle tombe dei patriarchi. A Baruch, caduto a sua volta sot­to i colpi della polizia, gli occupanti ebrei ("coloni") dell'insediamento di Hebron hanno elevato un monumento; essi proclamano che il massa­cro compiuto dall'eroe è un "mitzvà", atto gradito a Dio. Converrà dunque esaminare da vicino quale sia la natura del "Regno" che costoro si adoperano di attuare - e che concepiscono come una monar­chia ebraica sotto lo scettro del messia-re - attraverso il controllo del Congresso e del potere in Usa.



 

 

Capitolo 3
COSÌ CI COMANDERANNO

"È un fatto che i testi kabbalistici, al contrario di quelli talmudici, pon­gono l'accento sulla salvazione esclusivamente per i giudei" , scrive Isra­el Shahak'. E aggiunge: praticamente tutti gli autori ebraici che hanno scritto sulla Kabbala in qualche lingua occidentale (e cita ad esempio Scholem, il grande e rispettato studioso del giudaismo) hanno dissimula­to questo fatto, parlando di "uomini" ed "esseri umani" là dove i testi in ebraico intendono esclusivamente "ebrei".

Vero è che tale convinzione - che i non-ebrei siano esclusi dall'Alleanza e dalla redenzione - percorre il giudaismo classico e biblico fin dall'ini­zio. Fu tuttavia Ytzak Luria, il maestro kabbalista spagnolo del sedicesi­mo secolo, a sviluppare a pieno la teoria delle due razze: l'ebraica, "scelta per incarnare le quattro divine emanazioni in questo basso mondo", e il resto dell'umanità inferiore. "Le anime dei non ebrei", scriveva rabbi Hayim Vital, massimo interprete della filosofia di Luria, "vengono inte­ramente dalla parte femminile della sfera satanica. Per questa ragione le anime dei non ebrei sono dette malvagie, a nulla buone, e sono create senza conoscenza [del divino]" 2.

Non risulta che questa concezione segregativa e razziale della salvezza sia mai stata contrastata dai talmudisti. In compenso risulta che essa sia stata abbracciata completamente dal già citato rabbi Kook, fondatore del giudai­smo contemporaneo, e animi ancor oggi i movimenti ebraici del Gush

 

 

 

 ' Israel Shahak, cit., p. 58.

2

Israel Shahak, cìt., p. 58.


 

Emunim e l'intero mondo hassidico: i satanici goym sono ontologicamen­te inferiori, inesistenti rispetto al divino. Il brutale atteggiamento verso i palestinesi vigente nell'odierno stato di Israele discende direttamente, come immediata conseguenza politica e giuridica, da questa "teologia" razzista. Rabbi Schneerson non fa dunque che abbracciare una costante tradizio­ne, quando scrive: "Il corpo dell'ebreo sembra simile in sostanza al cor­po del non ebreo [...] ma la similarità è solo nella sostanza materiale, aspetto esteriore e qualità superficiale. La differenza della qualità inte­riore è così grande che i corpi devono considerarsi di specie del tutto di­versa. Ecco perché il Talmud stabilisce una diversità halachica [giuridi­ca] tra i corpi dei non ebrei [in confronto ai corpi degli ebrei]... Un ebreo non è stato creato come mezzo per uno scopo: egli stesso è lo scopo, dal momento che tutta la sostanza della emanazione è stata creata solo per servire gli ebrei. "In principio Dio creò i cieli e la terra" (Genesi 1:1) significa che tutto fii creato per il bene degli ebrei, che sono chiamati "il principio". Ciò significa che tutto [...] è vanità in confronto agli ebrei"'.

Non c'è nulla di inaudito né di eretico, secondo la tradizione ebraica, in queste posizioni. La sola novità è che i Lubavitcher non ne dissimulano le conseguenze giuridiche e politiche, anzi le divulgano persino tra i gentili sui loro siti e sulla loro pubblicistica. Benignamente, essi rivolgono il loro sforzo "missionario" anche alle "nazioni", nel senso che spiegano quale sarà il posto dei gentili nel "Regno" imminente, che essi - va ripetuto - con­cepiscono come una monarchia di questo mondo, un governo mondiale. Una delle loro organizzazioni si chiama "Jews and Hasidic Gentiles Uni­ted to Save America" (JHG-USA). Essa annuncia ai "gentili hassidici", evi­dentemente ai goym simpatizzanti per la setta: "Nella nostra generazione, il capo spirituale del popolo ebraico - e perciò del mondo intero - è rabbi Menachem Mendel Schneerson, noto come "il rebbe ", con sede a New York". E ancora: "Nel libro dell'Esodo, D. [Dio: il nome intero non è scrit­to né pronunciato dai pii giudei] proclama al mondo il Suo figlio: "Così dice il Signore: il mio primogenito è Israele". Israele è il popolo ebraico.

' Israel Shahak cit., p. 60.


 

Gli ebrei sono stati scelti da D. per essere il Suo "figlio" speciale, per es­sere, secondo le parole della Bibbia, "un regno di sacerdoti e una nazione santa " per il mondo intero " . Più oltre si annuncia "la resurrezione del reb­be dalla tomba, da cui si alzerà per ristabilire il Sinedrio e ungere il re".

Tutto ciò ha implicanze ben chiare per i fedeli del rebbe: nel "Regno", i goym saranno soggetti alla giurisdizione della "nazione santa" e del suo Sinedrio. Benignamente la setta informa però che i duri e minuziosi pre­cetti della "legge" sono riservati ai soli giudei, esclusivi destinatari della rivelazione di salvezza consegnata sul Sinai a Mosé. Per i gentili, basterà - ed a ciò li esorta generosamente Chabad - che osservino "le sette leggi noachiche", ossia di Noè.

Di che si tratta? Per l'Enciclopedia Britannica, si ha a che fare qui "con la designazione talinudica di sette leggi bibliche date ad Adamo e a Noé prima della rivelazione di Mosé sul Sinai, le quali di conseguenza sono obbligatorie per tutti gli esseri umani". Sfoglierete invano la Bibbia alla ricerca di un passo preciso, dove sia detto che Dio assegnò a Noé sette leggi. Il Talmud (Yebamoth 62a), in una nota, si degna di fornire la fonte scritturale delle presunte "leggi noachiche": Genesi 9:7. Ma in questo passo della Genesi, il Signore dice a Noé quanto segue:

"E tu sii fecondo e moltiplicati; occupa con abbondanza la terra, e qui moltiplicati ".

Un invito molto più generale delle "sette leggi noachiche". Ma finalmen­te lo troviamo enunciato: non nella Bibbia, ma più avanti nel Talmud (trat­tato Sanhedrin, 56a e 56b): "i nostri rabbi hanno insegnato: sette precet­ti furono imposti ai figli di Noè: leggi sociali; astenersi dalla bestemmia e idolatria; dall'adulterio; dal versare sangue; da rapine; e dal mangiar carne tagliata da un animale vivo". Sic. Dopo l'espressione "leggi sociali", una nota spiega: "cioè stabilire tribu­nali o, forse, osservare la giustizia sociale (Nahmanides sii Genesi XXXIV, 13). Hast. Dict. traduce "obbedienza all'autorità". Tutto diventa più chiaro. Le strambe "sette leggi noachiche" sono una del­

le infinite elucubrazioni escogitate dai Farisei, probabilmente nel secondo secolo dopo Cristo. Basate su riferimenti biblici a dir poco evanescenti, ma

 


 

sulla solida e chiara volontà del rabbinato di esigere "l'obbedienza all'au­torità" (la loro) dai gentili, e il potere di istituire "tribunali" per i goym - ciò che, detto fra parentesi, nemmeno "la rivelazione esclusiva di Mosé ' riservata agli ebrei concede loro, visto che i Dieci Comandamenti non au­torizzano una particolare autorità ebraica sul genere umano. Ma questa è la pretesa dei Lubavitcher. Come spiegano limpidamente:

"Questi comandamenti [le leggi noachiche] sono il fondamento di ogni progresso morale dell'umanità [sic]. Il giudaismo considera la vita da un punto di vista insieme nazionale e universale. Nel primo senso è partico­laristico, costituendo un popolo distinto e separato dagli altri dalle sue peculiari leggi religiose. Ma nel secondo senso riconosce che il progres­so morale e l'amore e l'approvazione divini che ne conseguono sono pri­vilegio ed obbligo di tutta l'umanità. Perciò il Talmud formula le sette leggi noachiche, osservando le quali tutto il genere umano può giungere alla perfezione spirituale, e senza le quali la morte morale seguirà inevi­tabilmente. Questa è probabilmente l'idea sottesa all'asserzione [talmu­dica] che un gentile è passibile di morte se viola una qualunque di esse".

 

Tra tutte le costituzioni repubblicane del mondo moderno, quella degli Stati Uniti è la sola che sancisca la "liberty under God', la libertà del cittadino però soggetta a Dio. Non è una costituzione illuminista e volterriana. I pa­dri fondatori, nell'inserire quel passo, avevano un'idea precisa di come si configurasse la "soggezione a Dio" americana: come soggezione ai Dieci Comandamenti, e al "non fare agli altri quel che vorresti non fosse fatto a te", non alle balzane leggi noachiche. 'Io sono un cristiano vero [...] di­scepolo delle dottrine di Gesù", scriveva Thomas Jefferson, il 9 gennaio 1816, all'amico Charles Thompson. E le dottrine di Gesù implicavano, per costoro, che Dio ha fatto gli uomini liberi e uguali. Herman Melville, nel romanzo di fondazione americano Moby Dick, eleverà un epico inno al Dio cristiano come "centro e circonferenza di ogni democrazia. La sua onni­presenza, la nostra divina eguaglianza". "Il grande Iddio democratico", "lo spirito dell'eguaglianza che ha steso sopra tutta la mia specie [gli uomini] un regale mantello di umanità", è nella costituzione americana "il fonda­-


 

mento di ogni progresso morale dell'umanità": l'esatto contrario del segre­gazionismo della "razza eletta" enunciato dall'ebraismo retrivo dei Luba­vitcher. La Costituzione americana fu scritta da democratici radicali. Non ammette due codici e due leggi, una per gli "eletti" e una per coloro che non avranno parte nel "mondo a venire".

 

Ma negli Stati Uniti d'oggi, non è più questa costituzione scritta a guida­re il governo. Nel marzo del 1991, come ho già ricordato, il presidente Bush (padre), a Camere riunite, emanò la Joint House Resolution 104, Public Law 102-14, con cui la data di nascita di rabbi Menachem Schne­erson fu dichiarata come "giorno dell'istruzione" in Usa. Nel preambolo della nuova legge, viene detto: "il Congresso riconosce la tradizione sto­rica di valori etici e principi che sono la base della nostra società civile e su cui la nostra grande nazione è fondata".

Qui, ci si aspetterebbe l'evocazione della "tradizione storica" e dei "va­lori etici" americani enunciati da Jefferson, da Payne, da Washington: li­bertà sotto Dio, uguaglianza, democrazia. Invece, ecco il seguito.

"Questi principi e valori etici sono stati la base della società fin dall'al­ba della civiltà, quando essi furono conosciuti come le sette leggi noa­chiche" '.

Le leggi noachiche. Il Congresso Usa fa' dunque riferimento, dal 1991, a quelle. In America non vige più la Costituzione, ma le norme talmudiche riservate a noi goym.

' Al sito thomas.loc.gov/cgi-bin/query/z?cl02:H.J.RES.I04.ENR.

 



 

Capitolo 4
LE DUE LEGGI

Da anni i Lubavitcher conducono una campagna contro la festività del Natale. Uno dei loro volantini recita così: "Campagna per abolire le celebrazioni di Natale dei gentili [...] in base alla nota sentenza ebraica che definisce i cristiani idolatri (Likkutei Sichos 37:198)"'.

"Sentenza" qui va inteso nel senso giudiziario: il Talmud è di fatto una raccolta di sanzioni penali, pronunciate dai rabbini e originariamente dai Farisei 2 nel corso dei secoli. Con la serietà dei fanatici i Lubavitcher in­tendono applicare il loro codice penale ai gentili dal momento che i tem­pi messianici sono qui, e il comando del mondo spetta a loro. Non na­scondono nemmeno quale tipo di disciplina intendono applicarci, appe­na potranno, per chi si macchia della colpa di celebrare il Natale.

"Un gentile [...] è passibile di pena capitale [...] se ha inventato una fe­sta religiosa per sé. Il principio generale è che non gli consentiamo di elaborare nuovi rituali religiosi e mitzvah [comandamenti, o anche "be­nedizioni", "buone azioni", ndr.] per conto proprio [...] Se egli compie

' Sul world wide web, noahide.com/xmas.htm. Il "Likkutei Sichos" è la raccolta dei discorsi del rebbe Schneerson, a cui i fanatici attribuiscono il valore di rescritti talmu­dici.

2

 Cfr. Universal Jewish Encyclopedia, 1948, Vol.8, pag. 474: "La religione ebraica quale oggi è discende senza interruzione, attraverso i secoli, dai Farisei. Le loro idee direttri­ci e metodi hanno trovato espressione in una letteratura di enorme estensione, che in grandissima parte è ancora esistente. Il Talmud è il più grande e importante corpo di [questa] letteratura, e il suo studio è essenziale per un'autentica comprensione del fari­saismo".


 

una mitzvah nuova, noi lo staffileremo, lo puniremo, e lo informiamo che è obbligato [sic] alla pena di morte per questo (Rambam Mishne Torah­Hilchose Melachim 10:9)".

L' autorità qui citata, "Rambam", non è altri che Maimonide, il talmudi­sta sefardita vissuto in Spagna fra il 1134 e il 1204; la "Mishne Torah" è una delle sue opere più famose. "Maimonide", c'informa in un testo se­fardita, 'fin l'autore della Mishne Tora, uno dei più grandi codici di leggi ebraiche; egli compilò ogni concepibile questione della legge ebraica in ordine di materia, fornendo una pronuncia semplice delle posizioni pre­valenti [fra i rabbini] in linguaggio piano. Al suo tempo, Maimonide fu ampiamente condannato per aver sostenuto che la Mishne Torah sostitu­iva lo studio del Talmud" 3. Dunque il diritto penale che i Lubavitcher ri­servano ai goym discende da una solida tradizione giudaica. Non è una loro invenzione, ma si richiama a Maimonide.

D'altra parte già il Talmud babilonese (Soferim 15, legge 10) cita un rab­bi Simon ben Yohai che sentenzia: "Tob shebe goyyni harog" ("Anche il migliore dei gentili merita la morte"). La durezza di questa sentenza è stata dissimulata nella versione del Talmud di Soncino, che i gentili po­tevano leggere: "anche il migliore fra gli Egiziani....". Per prudenza, come riconosce la Jewish Encyclopedia nell'edizione del 1903 (voce "Gentiles", Vol. 5, p. 617).

Ma ormai, per i Lubavitcher, non è più tempo di prudenza: il tempo del dominio dei Gentili, di "Edom", degli "Egizi" è finito. Ora è arrivato il tempo della legge giudaica sui gentili, che è la base di "ogni progresso morale". Essi la proclamano apertamente:

"Se un infedele colpisce un ebreo, è degno di morte [...] Colui che colpi­sce un israelita sulla mascella, è come se avesse aggredito la Divina Pre­senza, poiché è scritto: se uno colpisce un uomo, è l'aggressore dell'Uni­co Santo" (Sanhedrin, 58b).

Se uno colpisce "un uomo", deve essere inteso: un giudeo. Solo i giudei sono uomini.

 

 

 

 

' Sul web: "Sephardicsages.com/rambam.html"


 

 Il rebbe, Menachem Schneerson, ha sviluppato ampiamente il concetto di uomo e di non-uomo (il gentile) a proposito della questione dei trapian­ti e di quella dell'aborto: problematiche post-moderne che il "savio" af­fronta col primitivismo oscurantista giudaico.

"Ci si domanda: perché un non-ebreo deve essere punito se uccide un feto anche non-ebreo, mentre un giudeo non deve essere punito anche se uc­cide un feto giudeo? La risposta proviene dal considerare la differenza generale tra ebrei e non-ebrei: un ebreo non è stato creato come mezzo per qualche altro scopo; egli stesso è lo scopo [...] L'intera creazione esiste per servire i giudei. Per questo un non-ebreo deve essere punito con la morte se uccide un feto, mentre un ebreo, la cui esistenza è la sola cosa importante, non deve essere condannato alla morte per[ché ha distrutto] qualcosa di secondario. Non si deve eliminare una cosa importante per il bene di una cosa ausiliaria. Vero è che esiste una proibizione di dan­neggiare un feto, perché è qualcosa che nascerà in futuro e che già esiste informa nascosta. [Ma] la pena di morte dovrebbe essere invocata solo quando sono in causa cose visibili; come detto sopra, il feto è solo d'im­portanza sussidiaria".

Altrove: "Se un giudeo ha bisogno di un fegato, può prendere il fegato di un non ebreo innocente per salvare il primo? La Torah probabilmente lo consente. La vita di un ebreo ha valore infinito. Se vedi due persone af­fogare, un ebreo e un non ebreo, la Torah ti impone di salvare prima la vita dell'ebreo"

Commenta Shahak: "Basta cambiare qui la parola "ebreo" con "tede­sco " o "ariano "; ed ecco la dottrina che ha reso possibile Auschwitz" °. È un bel saggio della moralità superiore dell'ebraismo, che pretende con­durre tutti noi - volenti o nolenti - all'obbedienza di quei "fondamenti del progresso morale dell'uomo" che sono le leggi noachiche. Come abbiamo visto, le leggi noachiche prescrivono a noi "l'obbedienza all'autorità". Ovviamente non c'è autorità superiore a quella rabbinica.

' Op, cit, p. 62. Dobbiamo ad Israel Shahak anche i due rescritti del rebbe sopra citati a proposito di aborto e trapianto.

 


 

Ne conseguono talune sgradevoli conseguenze: la società multirazziale andrà bene per i goym, ma non vale per gli uomini superiori, fine della creazione. Il rebbe si limitava a deplorare i matrimoni fra ebrei e gentili come "cremazione spirituale". Nel suo "Regno" messianico, simile mi­sfatto comporterà la pena di morte (ovviamente per il gentile, non per l'ebreo).

Per il rebbe, già lo sappiamo, libertà individuale e uguaglianza di fronte alla legge sono "ideali mal concepiti". I testi Lubavitcher sono qui per precisare il concetto.

"Sul monte Sinai D. diede i Dieci Comandamenti (e centinaia di altri) [sic] al popolo ebraico. Queste leggi riguardano solo gli ebrei nel loro ruolo speciale di guide spirituali del mondo"'.

"La legge contiene due sentieri paralleli (ma separati) per il mondo: 613 comandamenti per gli ebrei, e 66 comandamenti (contenuti nelle 7 leggi noachiche) per i gentili [...] i non ebrei possono non osservare il Sabato o le festività al modo degli ebrei [...] né assistere alla lettura pubblica della Torah in una sinagoga" t'.

Ancora: "1 sette comandamenti [le sette leggi noachiche] non sono leggi arbitrarie, ma il piano di D. per l'umanità. Solo per gli ebrei tali sette leggi sono state sostituite dai dieci comandamenti. Agli ebrei D. diede l'intera Torah e la legge. Per questo hanno una speciale responsabilità - e comandamenti speciali - per essere il sacerdozio del mondo, "luce fra le nazioni"'.

Non è una posizione esclusiva della setta. La American Cìvil Liberties Union, uno dei tanti organismi della cosiddetta "lobby ebraica" in Usa, si oppone all'affissione dei Dieci Comandamenti nelle pubbliche scuole e, in generale, nei luoghi pubblici. Ecco perché: per il giudaismo, i Dieci Comandamenti non sono proprietà pubblica, ma solo degli ebrei. Per i gentili, ci sono le leggi noachiche.

' "Who is the Son of G_D?" sul sito "noahide.com/son.htm".

"The Law is Only a Minimum", su "noachide.com/minimum.htm".

 ' "What is Noah's Covenant? Su "noahide.com/covenant.htm".


 

Ovviamente, nel "mondo a venire", i goym o "gentili hassidici" non giudicheranno da sé le violazioni delle leggi noachiche.

"Le comunità noachiche richiedono [...] tribunali, presieduti da giusti giudici rabbinicamente educati, che funzioneranno similmente agli ebraici batei dinim (tribunali)"'.

Del resto, c'informano i Lubavitcher, "già oggi un programma di Torah per il doposcuola a casa viene usato per insegnare ai bambini noachidi [...] L'approccio educativo riduce al minimo gli studi laici (matematica, scienze, storia, inglese, sociologia, computer e altri studi tecnici) in favore di un'immersione totale nella Torah, la parola di D."

Non dice Isaia che "lo straniero guarderà le vostre greggi"? L'umanità inferiore, destinata a servire la "luce delle nazioni", non ha bisogno c istruzione scientifica o umanistica. Generoso, Chabad sta già distribuendo su internet e per posta il corso semplificato di Torah per i servi-pastori.

Del resto, "non ebrei non devono essere elevati ad alcun officio o posizione di potere sopra degli ebrei. Se rifiutano di vivere una vita di inferiorità, questo segnala la loro ribellione e l'inevitabile necessità della guerra ebraica contro la loro stessa presenza nella terra d'Israele ": questo non è un rescritto rabbinico, ma una dichiarazione di Mordechai Nisan, docente della Hebrew University di Gerusalemme, pubblicata nel 1984 ', nello spirito del Talmud e di Maimonide.

Così, un'inquieta curiosità ci prende di conoscere le 7 leggi, proliferate rabbinicamente in 66, alle quali noi goym saremo soggetti nel mondo venire. Apprendiamo che ci sarà proibita la cospirazione (legge 25); proibito consultare i morti (legge 30) e mangiare un membro strappato a un animale vivo (legge 15). Ci è proibito praticare Ov (legge 7) e praticar Yiddoni (legge 9), qualunque cosa ciò significhi. Ci sono consentiti invece, apprendiamo con sollievo, i sacrifici rituali - evidentemente nel "tem-

 'The Final War for Jerusalem (Why Permanere Israeli Victory Is Now Within Reach)' su "noahide.com/fìnalwar.htm".

' Israel Shahak, op.cit., p. 73.

25


 

pio" ricostruito. Le violazioni saranno invariabilmente punite in un solo modo: per decapitazione (legge 16).

 

Proibito, anzi proibitissimo, adorare Moloch, e specificamente "passare i nostri figli nel fuoco in onore di Moloch" (legge 7). A quanto pare que­sto non dovrebbe essere un problema per noi cristiani, anche nominali; lo è stato, come si legge nella Bibbia, per gli ebrei. D'altra parte, il Tal­mud (Sanhedrin 64a-64b) prescrive certe condizioni, sotto le quali gli ebrei possono sacrificare i loro figli a Moloch. C'è sempre un'eccezione per gli ebrei.

Lo si vede, più chiaramente che altrove, su una materia delicata come la pedofilia. Il Talmud (Sanhedrin 55b, 69a) fulmina: "Le bambine portano dura punizione su coloro che hanno rapporti con esse quando sono me­struate". Tuttavia, questo anatema ha di mira non l'atto sessuale, ma la paura ebraica del sangue mestruale e l'ossessione della "purità" rituale.

Infatti: "quando un adulto ha rapporto con una bambina, è nulla; perché quando la bambina ha meno di tre anni, ciò è come se uno ficca un dito in un occhio. Le lacrime vengono e vengono; così la verginità torna a una

bambina sotto i tre anni" (Ketuboth 11b). Questa s'intende è una legge "per il bene degli ebrei", e deve far parte delle "centinaia" di rivelazioni date da D. sul Sinai esclusivamente al popolo eletto. Inoltre: "quando un bambino [ebreo] di meno di nove anni ha rapporti sessuali con una don­na adulta, o quando una ragazza si è accidentalmente ferita con un pez­zo di legno [evidentemente durante la masturbazione] non vale riguardo ad essi l'accusa di non verginità" (Ketuboth 1 la).

Ne segue che una bambina di tre anni e un giorno "può essere presa in matrimonio per coito" (Sanhedrin 55b). Che "un ebreo può sodomizzare un bambino se questo ha meno di nove anni" (Sanhedrin 54b). A mag­gior ragione, "una bambina non ebrea di tre anni può essere violata" (Aboda Shara 37a), e lo stupratore "resta impuro solo fino a sera" (Cho­schen Ha'mischpat).

Sulla pederastia lecita i pareri dei giuristi rabbinici discordano: "Rab ha detto: la pederastia con un bambino sotto i nove anni non è considerata


 

come la pederastia con un bambino sopra quell'età. Samuele ha detto: la pederastia con un bambino sotto i tre anni non è riguardata come i pederastia con un bambino sopra quell'età".

Ma, per i membri del popolo eletto, nemmeno queste violazioni sono passibili di morte. Anzi. La legge prevede per loro ogni sorta di condono

"Una donna venne da rabbi Hisda e gli confessò che il suo più lieve peccato era che il suo figlio più giovane era il prodotto del suo figlio più anziano. Poiché era il suo peccato più lieve, fu scusata" (Abodah Zara 17a). "Il rapporto sessuale è permesso con un morto, sia che fosse o non sposato" (Yebhamoth 55b). "Una donna che ha avuto rapporti con un animale ha titolo per sposare un sacerdote ebreo" (Yebamoth 59b).

Il giogo della legge è leggero, per i figli della "luce", la razza superiore che detta questo tipo di norme per "il progresso morale dell'umanità". È duro e pesante solo per i goym: "Ma gli akum (cristiani) sono stati creati per il solo fine di servire loro [gli ebrei] giorno e notte. Né devono mai essere alleviati dal servizio. È degno del figlio di un re che gli animali nella loro forma naturale, e gli animali informa umana, lo servano" (Midrash Talpiot, folio 225d).

 



 

Capitolo 5
GENTILI PER ISRAELE

Il rebbe ha disposto un compito fin d'ora per i nuovi servitori. Indovina­te quale? Non c'è bisogno che vi sforziate. La setta Chabad spiega aper­tamente, nel sito JHG-USA ("Jewish and Hasidic Gentiles Unite to Save America") quale è il progetto su di noi infedeli.

Il testo è un appello, e anche musica per le orecchie di quella vasta area del fondamentalismo protestante americano convinta di vivere alla fine dei tempi (end times) e che attende the second coming, il "secondo av­vento di Cristo". Come spiegano i Lubavitcher nei loro testi, "Circa i due terzi degli americani si descrivono come [cristiani] rinati, e i più di loro credono che l'avvento del messia sia imminente e che, come la Bibbia chiaramente profetizza, le forze del male stanno sferrando guerra ad Isra­ele". Non che costoro siano precisamente dei filosemiti, anzi. Ma vedo­no nel ritorno degli ebrei in Terrasanta un infallibile "segno dei tempi", predetto dalle Scritture; come ripetono i loro telepredicatori, il ritorno ebraico pone le condizioni per l'ultima battaglia, quella fra il "bene" e il "male", che avverrà in Armageddon. Gli ebrei fondamentalisti "accele­rano" il tragico ma fausto evento - che segnerà anche la loro fine - sic­ché vale la pena di aiutarli.

I Lubavitcher lo sanno. E pensano, con perfetta simmetria, che bisogna mobilitare questi gentili per la battaglia finale che vedrà la vittoria ulti­ma di Israele. Entrambi coincidono in qualche modo nella diagnosi dei

"tempi". D'altra parte, scrivono, "la Cristianità sta crollando fra lotte in­testine e confusione teologica, e diventa un vuoto incapace di difendersi


 

sia contro le menzogne di Amalek [nella Bibbia, una tribù discendente da Esaù: per i Lubavitcher, sono probabilmente i musulmani], sia contro la verità della Torah. Amalek può sfruttare il collasso mondiale della cri­stianità solo se il popolo ebraico non coglie prima l'irripetibile opportu­nità". Di fatto, secondo i fanatici, "tutti i sei miliardi di gentili sono pronti a chiedere ai giudei di farsi loro guide spirituali in questi tempi di oscu­rità". Ecco l'opportunità.

Scrivono ancora i Lubavitcher: "siamo in guerra. Non è solo una lot­ta per il potere, i beni o qualche altro vantaggio materiale; è uno scontro titanico sul futuro della civiltà mondiale (...] Questa guerra già dilaga in ogni nazione, in ogni istituzione sociale, in ogni attività umana. Per questo è una "guerra mondiale" nel significato più radi­cale" ' .

Naturalmente, per la setta l'esito è certo.

"Il popolo ebraico ha il privilegiato potere di vittoria, per salvare il mon­do dalla via di completa autodistruzione in cui è avviato. Siamo oggi l'ul­tima generazione dell'esilio ebraico, e la prima generazione del messia: perciò alle nostre azioni è garantito il successo miracoloso".

Il successo sarà conseguito - valga la pena notarlo - utilizzando i gentili.

"Come ha spiegato il rebbe Lubavitcher, trasformando i gentili possia­mo creare un vasto esercito di sostenitori che ci aiuteranno a rivelare il messia e riportare gli ebrei alla Torah".

Chi pensasse che la setta abbia in mente una guerra spirituale, un pio "ri­portare gli ebrei alla Torah", si ricreda. Il rebbe (il messia) ha in mente un progetto politico-militare ben preciso.

"Specificamente, il rebbe ha sottolineato che il "processo di pace" in Israele sarà sconfitto solo attraverso la nostra influenza sui gentili, spe­cie attraverso la campagna per insegnare le leggi noachiche (Cfr. Sichos in English, vol. 16 (19 Kislev 5743)" .

 

 

 

 

 

sito web: "noahide-com/finalwar.htm"

z Si tratta dei detti in inglese di rabbi Schneerson.


 

Dunque è la guerra che il rebbe vuole. La guerra combattuta con tutte le armi della potenza militare ebraica e di quella americana. Una guerra sen­za quartiere, per cancellare ogni presenza estranea dalla sacra terra d' Isra­ele.

Come infatti ha spiegato Alla Bronfeld sul Washington Report on Middle East Affairs (marzo 2000),

"Rabbi Schneerson ha sempre appoggiato le guerre di Israele e s'è op­posto ad ogni concessione. Nel 1974 si oppose strenuamente al ritiro isra­eliano dall'area di Suez. Egli promise il divino favore a Israele se conti­nuava l'occupazione della terra. Dopo la sua morte, migliaia dei suoi seguaci israeliani hanno contribuito in modo importante all'elezione di Benjamin Netanyhau. Tra i coloni religiosi nei territori occupati, gli has­sidici Chabad costituiscono uno dei gruppi più estremisti. Baruch Gold­stein, il massacratore dei palestinesi, era uno di loro".

 

La propaganda israeliana ha imposto al mondo la versione che l'Olp ha silurato il processo di pace perché voleva più terra, più potere, Gerusa­lemme capitale, eccetera. Ma negli otto anni del "processo di pace", i pa­lestinesi hanno visto aumentare dì due terzi, incessantemente, i nuovi in­sediamenti sulla terra che, secondo le trattative in corso, doveva andare a loro.

Ora cominciamo a vedere perché: erano i messianici ebraici a sabotare il processo di pace. Costruivano insediamenti; a volte, non più di cinquan­ta persone. Ma poi invocavano l'esercito israeliano per proteggerle: così anche duemila soldati, con mezzi pesanti e armamento temibile, occupa­no territori palestinesi per difendere piccole minoranze la cui pretesa non viene messa in discussione dal governo d'Israele. Questo è il dato signi­ficativo: proprio le minoranze più oscurantiste esercitano un'egemonia, che nessuno contesta in Israele, perché nella visione ebraica questi estre­misti sono "i più veri" ebrei. La politica dello stato viene piegata a una visione messianica.

Del resto i Lubavitcher non sono soli ad aver sabotato con colpi di mano, e soprattutto insediando colonie nell'area palestinese, il processo di pace.

 


 

Costoro sono convinti che "l'efficienza messianica" - visto che il messia è arrivato - implica "conquista, non arretramento e spartizione" s del suo­lo "sacro". Ma un movimento solo apparentemente più laico, il Gush Emunim (Blocco dei Fedeli) - per cui simpatizza, secondo i sondaggi, metà della popolazione israeliana - sostiene precisamente la stessa cosa. Messianismo senza messia, il Gush Emunim "insiste sulla colonizzazio­ne di tutta la terra d'Israele [...]: il popolo ebraico detiene un diritto sa­cro sulla terra d'Israele, ed è dunque suo dovere sacro prendere posses­so del paese . L'integralità della terra per l'integralità dell'ebraismo" '.

I seguaci del Gush Emunim hanno appreso la loro dottrina da Tzvi Yehu­da Kook (1891-1981), unico figlio di quel rabbi Abraham Kook che ab­biamo visto salutare il sionismo ateo e socialista come restauratore, a sua insaputa, del sacro Israele con "l'utilizzo delle forze vive e negatrici che operano nel profano alfine di elevarlo verso la sua sorgente superiore".

Perché anche le `forze negatrici" sono ebraiche, e dunque divine. La "dot­trina" ebraica per realizzare (o meglio per "affrettare") l'avvento del "Re­gno" è tutta fondata su questo amoralismo narcisista: l'esito estremo dell’autoadorazione giudaica, dei popolo che non si limita a credersi tiglio di Dio, ma Dio esso stesso 5.

Atei o religiosi, "mistici" o secolari, gli ebrei puntano tutti e sempre lì. E quella visione integralista guida la politica dello stato d'Israele. Il Luba­vitcher s'inseriscono in una solida tradizione - su una versione maligna della "elezione" d'Israele come "supremazia" - non solo mai contestata nel mondo ebraico, ma pienamente accettata.

Dunque, la guerra. E saranno i gentili a combatterla per conto del popolo eletto.

David Banon, cit. p.124

David Banon, cit., p. 106

' Per un cristiano, è impossibile non ricordare a questo proposito quanto san Paolo pro­fetizza a proposito dell'Anticristo: vorrà "sedersi nel Tempio di Dio, dichiarando Dio se stesso" (II Tessalonicesi, 2,4).


 

Capitolo 6
TUTTI I CHABAD DEL PRESIDENTE

Si potrebbe ridere di questi progetti, come il frutto insensato di menti tor­bidamente oscurantiste, se essi non avessero accesso - e non trovassero orecchie pronte ad applicarli - nell'Amministrazione del presidente Bush jr. Ne rideremmo, se fossimo sicuri che in America vigono ancora la de­mocrazia, la Costituzione e la libertà d'espressione anziché le "leggi no­achiche"; e se non temessimo che democrazia e libertà americane siano sotto controllo, e spesso sotto intimidazione, dell'irrazionalismo millena­rista, del messianismo ebraico. Per il quale, come abbiamo visto, ogni mezzo è lecito per giungere al fine: e ciò, come vedremo, pone inquie­tanti domande specie in relazione agli eventi dell' 11 Settembre e a come quegli eventi hanno trasformato la politica americana. Già la lista dei Lubavitcher, o dei politici che hanno pubblicamente pre­stato la loro fedeltà al rebbe, nell'attuale governo e parlamento degli Usa è allarmante. L'elenco che produciamo è probabilmente incompleto. Esso comprende però sicuramente:

Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca con grado di ministro. Ha accesso quotidiano al presidente Bush. Fleischer, che ha conosciuto il rab­bino Shemtov mentre lavorava per un senatore repubblicano del New Mexico, è uno dei più assidui ed entusiasti frequentatori dei seminari lubavitch. "Il rischio del mio lavoro è di perdere di vista i fini della religio­ne. Egli [Shemtov] mi ha reso facile vivere una vita sempre più ebraica in Campidoglio" (Jerusalem Post, 22 ottobre 2001).

Paul Wolfowitz, vicesegretario alla Difesa, il più estremo dei "falchi"

 


 

anti-musulmani, capo di quella che persino il Village Voice ha denomina­to "la camarilla Wolfowitz", che spinge per una guerra totale degli Usa contro Irak, Iran e Siria (dovremo riparlarne diffusamente). Dov Zackheim, comptroller alla Difesa (ossia controllore del bilancio del Pentagono), che è in proprio un rabbino ortodosso e che ha - a quanto si dice - la doppia cittadinanza, americana e israeliana.

Douglas Feith, sottosegretario alla Difesa e "policy adviser" del Penta­gono (cioè consigliere per le politiche militari) è allo stesso tempo capo di uno studio legale (Feith & Zell) con sede in Israele, dove rappresenta la Israeli Armements Manufacturers, ossia la principale fabbrica di armi dello stato ebraico. Che questo configuri un gravissimo conflitto d'inte­resse - più precisamente interesse privato in atti d'ufficio - è ovvio. Ma è anche evidente che le norme e i codici dei goym non valgono per un membro così prominente del "popolo eletto", che oltretutto - in quanto esponente di spicco della Zionist Organization of America, una delle tante entità che compongono la cosiddetta "lobby ebraica" - suggerisce aper­tamente politiche anti-arabe.

Marc Grossman, sottosegretario di stato per gli affari politici (dunque uno dei suggeritori principali del presidente), ex ambasciatore in Turchia (1994-1997), era già assistente segretario di stato per gli affari europei sotto Clinton: i suggeritori ebrei non cambiano, al cambiare dei governi. In quelle sue vesti precedenti, Grossman è stato insostituibile sia nell'al­lacciare gli stretti rapporti militari, quasi un'alleanza, che attualmente uniscono Turchia e Israele, e insieme nel convincere (o obbligare) l'Eu­ropa ad ammettere la Turchia fra i suoi membri.

Richard Haas, direttore al Dipartimento di Stato del Policy Planning (un altro suggeritore dietro le quinte), nonché direttore del National Security Programs. In questa veste, dall' 11 settembre, invoca (come Wolfowitz) l'immediato bombardamento dell'Irak. Haas è anche membro dell'in­fluentissimo Council on Foreign Relations (CFR), il "centro di studi stra­tegici" privato, finanziato dai Rockefeller, che dal 1918 elabora la politi­ca estera degli Usa. Al CFR (dove brillano per influenza Henry Kissin­ger e James Schlesinger, entrambi ebrei, consiglieri del Pentagono e av­-


 

vocati di una nuova guerra all'Irak), Haas ha diretto il "gruppo di studio sulla utilità delle sanzioni economiche come strumento della politica este­ra americana" (1997), ossia sull'utensile politico-economico per impor­re l'interesse nazionale Usa (o rabbinico) agli altri paesi, renitenti o no. Robert Zoellick, altro ebreo, è US Trade Representative: negoziatore principale sulla globalizzazione economica, carica nella quale non man­ca di applicare le direttive elaborate da Haas e dal CFR. In posizione meno rilevante, più nell'ombra, ci sono altri personaggi che frequentano i seminari politico-messianici del rabbino Shemtov. Steve Goldsmith, "senior advisor", ossia suggeritore molto ascoltato del presidente, in continua spola tra Washington e Gerusalemme. Adam Goldman, agente di collegamento (special liaison) del presiden­te presso la comunità ebraica americana, che continua (senza averlo rim­piazzato) il lavoro di Joseph Gildenhorn, special liaison per la campa­gna presidenziale di Bush figlio. Evidentemente, il presidente necessita di due persone di collegamento con la comunità, per essere sicuro di in­terpretarne fedelmente i desideri.

Joshua Bolten è chief policy director della Casa Bianca, un altro sugge­ritore.

Brad Blakeman, direttore degli appuntamenti alla Casa Bianca.

Lewis Libby, capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney.

Mel Sembler, presidente della Export-Import Bank degli Usa, la banca (fondata da Averell Harriman per "aiutare" l'Urss negli anni della gran­de crisi economica sovietica): entità sopravvissuta dello statalismo sovie­tizzante in pieno liberismo capitalista, che sovvenziona le esportazioni americane.

Mark Weinberger, assistente segretario al Tesoro, cioè viceministro. Samuel Bodman, vicesegretario al Commercio.

Bonnie Cohen, sottosegretario di stato per l'amministrazione pubblica. Ruth Davis, direttrice del Foreign Servíce Institute, con un potere di con­trollo sul personale diplomatico.

Lincoln Bloomfield, assistente segretario di stato (altro viceministro) per gli affari politico-militari.


 

Jay Lefkowitz, consigliere generale dell'Office of Budget and Manage­ment, ossia della Ragioneria Generale dello stato.

Michael Chertoff, capo del ministero della Giustizia, sezione penale. David Frum, che scrive i discorsi della Casa Bianca. Quando ascoltate Bush parlare, ricordate che esprime parole e concetti scritti da uno de­gli ardenti sostenitori messianici di Israele. Frum, come tutti i già cita­ti, non è solo ebreo, ma è un prominente lobbista pro-israeliano. Nes­suno di costoro ha ovviamente spezzato mai una lancia per le ragioni dei palestinesi.

Seguono una decina di ambasciatori. Anche l'ambasciatore Usa in Italia, Mel Sembler, è un lobbista ebraico. Così, inevitabile, l'ambasciatore Usa in Israele, Daniel Kurtzer.

Non basta. Alla già lunga lista vanno aggiunte alcune personalità che la­vorano per il governo ancora più nell'ombra, come consiglieri e membri del National Security Council, il "concilium principis", la camera priva­ta del presidente che - non eletta ma cooptata - elabora le politiche pre­sidenziali senza alcun controllo democratico. Eccone alcuni identificati: Robert Satloff, consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto sul Los Angeles Times (27 giugno 2002) quali sono i suoi consigli: "chiudere il conto con Arafat" (Sharon ha eseguito). Inoltre, Satloff dirige il Washin­gton Institute for Near East Policy, un ufficio-studi che altro non è che una branca della lobby ebraica.

Elliott Abrams, già intimo di Bush padre, "falco" pro-israeliano nell'am­ministrazione Reagan, e coinvolto nell'oscura vicenda Iran-Contra (armi acquistate da Israele in Iran (!) per poi paracadutarle ai guerriglieri anti­comunisti del Nicaragua) e in una vicenda ancora più oscura: l'illegale fornitura di armi all'Iran quando era in guerra con l'Irak. Lo scoppio dello scandalo Iran-Contra rivelò l'esistenza di una "rete" segreta militare-spio­nistica, dell'estrema destra "patriottica" (platealmente rappresentata dal colonnello Oliver North), che conduceva politiche aggressive nel mondo indipendentemente dagli ordini del governo. Ne seguirono audizioni pres­so varie commissioni parlamentari. Abrams fu interrogato da tre commis­sioni: mentì, al punto di essere incriminato per grave falsa testimonianza


 

(felony). Nel 1991 si riconobbe colpevole, il che gli fruttò una pena lie­ve: un anno di libertà vigilata e cento ore di affidamento ai servizi socia­li. Un anno dopo, Bush padre gli concedeva il completo perdono lustra­le. Ora di nuovo al governo, con Bush figlio. Richard Perle, personaggio con una storia interessante: negli anni '70, portaborse del senatore Henry Jackson, fu cacciato dagli uffici senatoria­li perché la National Security Agency (NSA, una specie di super-Cia per gli interni) lo aveva colto a consegnare documenti classificati "segretis­simi", e relativi alla sicurezza nazionale, all'ambasciata d'Israele. A di­spetto di questo sospetto di spionaggio, rieccolo suggeritore del governo Bush jr. Nel frattempo ha lavorato per la Soltam, fabbrica d'armi israe­liana. Membro infocato della "camarilla Wolfowitz", dopo l' 11 settem­bre ha inviato una lettera aperta al presidente (sottoscritta da numerosi firmatari, tutti ebrei) per esigere l'immediato intervento contro l'Irak, da lui accusato di complicità con Al-Qaeda (legame poi smentito dalle in­dagini).

Basta così? Finita quest'interminabile lista? No, veramente no. All'elen­co si deve aggiungere, per esempio, Ruth Bader Ginsburg, la donna che siede alla Corte Suprema: dichiaratamente fiera del suo ebraismo. Vero che fu nominata a quel posto - Corte Costituzionale, il luogo supremo della giustizia Usa - da Bill Clinton nel 1997. Ma ciò non significa che gli orientamenti della signora sino diversi da quelli dei falchi scelti da Bush.

Anzi. Nella fedeltà alle direttive del rebbe, e al suo progetto millenarista, gli ebrei che contano nella politica dimostrano un'ammirevole bipartisan­ship. Si prenda, al Congresso, il senatore (democratico, Connecticut) Jo­seph Lieberman. È stato candidato alla vicepresidenza a fianco di Al Gore: avessero vinto i democratici, sarebbe stato lui a garantire che la politica Usa verso Israele restasse la stessa. Come del resto, sorveglia che i goym democratici non si discostino dalle "direttive", magari - non si sa mai, un partito di sinistra - esibendo un fastidioso pacifismo, anche il se­natore Carl Levin (democratico, Michigan) che presiede la Commissio­-

 

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ne delle Forze Armate al Senato. Al Senato, Levin ha pronunciato un commosso elogio degli "ideali" del Chabad Lubavitch.

Destra o sinistra, democratici o repubblicani, i membri della comunità ebraica non fanno nemmeno finta dì nutrire posizioni diverse sulla mate­ria essenziale. Lo ha confermato un articolo del Jewish Times (di Balti­mora, del 26 ottobre 2001). Il titolo del pezzo, "Ari Fleischer, reform Lu­bavitch", è di per sé istruttivo: "come quasi tutti gli alti responsabili del­la Casa Bianca, la vita del segretario alla stampa Ari Fleischer [repub­blicano] è stata un vortice incessante dall'11 settembre. Però la settima­na scorsa s'è preso alcune ore di vacanza per andare a ritirare il premio elargitogli dall'American Friends of Lubavitch, e per aiutare ad accre­scere l'influenza ebraica, a cui il gruppo dedica i suoi sforzi, al Campi­doglio. Sono sforzi che Fleischer, già alto funzionario del Congresso, so­stiene fin dall'inizio.

"Il gruppo [ossia Chabad] gli ha conferito l'onorificenza per la "Young Leadership", mentre il senatore Joseph Lieberman è stato l'ospite d'ono­re della grande cena successiva, che ha attratto centinaia di pezzi grossi della politica a Washington, funzionari del Campidoglio e miliardari washingtoniani. Fleischer è stato uno dei primi capi e co-presidenti del Capitol Jewish forum di Chabad, che unisce deputati, senatori e perso­nale del Congresso e dell'Amministrazione per lo studio degli eventi ebraici (...1 Con grande senso dell'unità sopra le barriere partitiche, sia Fleischer sia Lieberman hanno elevato eloquenti lodi sull'attiva opera di Chabad volta a valorizzare l'armata dei giovani impegnati coane fun­zionari nel governo e nel lavoro politico".

Il Jerusalem Post, il 22 ottobre 2001, è stato anche più esplicito. "Le cene del Shabbat di Shemtov [il rabbino-controllore] riuniscono ebrei che sa­rebbero avversari politici naturali nei dibattiti della CNN". E cita Tho­mas Kahn, pezzo grosso dei democratici alla camera bassa: "Non c'è nes­suno [più di Shemtov] che sia così generalmente rispettato e cordialmen­te ricevuto al Congresso, nell'amministrazione e nel corpo diplomatico. In gran parte [Shemtov] lo deve semplicemente alla sua forza di perso­nalità e anche come tributo a Chabad'.


 

Tutti i personaggi sopra nominati presenziano regolarmente ai "semina­ri" di Chabad che il rabbino Shemtov tiene al Campidoglio: anche l'ano­nima "armata" dei funzionari "giovani", di secondo piano ma con acces­so a personalità e informazioni di primaria importanza, nelle cucine del­la politica di Washington. Il viceministro Wolfowitz, il controllore del bi­lancio Difesa Zackheim, l'ex vice segretario al Tesoro Stuart Eizenstat sono dichiaratamente dei Lubavitcher essi stessi; ma anche chi non lo è simpatizza col movimento e i suoi fini - e nessuno ha mai accennato a contestarlo. Una vastissima rete di potere e d'influenza, e a maglie stret­te, controlla il governo degli Stati Uniti e fornisce a chi di dovere (al rab­bino) tutte, anche le minime, informazioni necessarie perché la grande America partecipi al progetto messianico e militare. Non si sa, infine, se anche Alan Greenspan partecipi ai seminari dei fa­natici. Come capo israelita della Federal Reserve, la banca centrale Usa e dunque controllore dei tassi d'interesse, egli controlla praticamente ogni politica e procedura del governo stesso, ed è in costante contatto con la

Casa Bianca.

 

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Capitolo 7
CONOSCERE WOLFOWITZ

Il 9 dicembre 2001, il viceministro della Difesa Paul Wolfowitz ha acce­so solennemente la "menorah nazionale" (il candelabro a sette braccia) sul Campidoglio. Gli erano al fianco due rabbini Lubavitcher: l'onnipre­sente Levi Shemtov, il conduttore dei "seminari" politici, e suo fratello, Abraham Shemtov. Scopriamo così dal lirico articolo che il Washington Post dedica all'evento il giorno dopo (titolo: "la calda fiammella della speranza") che esiste in Usa una "menorah nazionale". Ovviamente non esiste, poniamo, un presepio nazionale. E nessun ministro americano an­drebbe solennemente a visitarlo. Ciò violerebbe il principio della separa­zione fra stato e religione, in Usa assai rigida. Ma c'è sempre un'ecce­zione per gli ebrei: Wolfowitz s'è comportato come se l'hassidismo fa­natico di cui è devoto fosse la religione di stato.

Probabilmente lo è. Come abbiamo appreso dai Lubavitcher, vigono due leggi distinte, una per il popolo eletto e sovrano, l'altra - più coattiva - per gli inferiori noachici. Di fatto, Wolfowitz è famoso per il suo disprez­zo di ogni regola e convenzione, internazionale o di stato. Già all'indo­mani dell' 11 settembre, il viceministro del Pentagono proclamava che - essendo più che evidenti i legami fra Al-Qaeda e Saddam Hussein, il lea­der irakeno - bisognava immediatamente attaccare l'Irak. Anzi di più:"Liquidare gli stati che sostengono il terrorismo", tutti quanti. Per la pre­cisione, tutte le nazioni che possono costituire una minaccia per lo stato ebraico, anche potenziale. Secondo il Village Voice, che al personaggio ha dedicato un sarcastico articolo (21 novembre 2001), Wolfowitz spin-


 

geva "per estendere l'azione militare contro l'Irak, la Siria e il Libano, praticamente identificando così l'interesse nazionale di Israele con quello degli Usa" . Sempre pensoso del bene di Israele, Wolfowitz premeva per mettere anche Arafat nella lista dei terroristi da punire con la forza statu­nitense, e per azioni "liquidatorie" degli Usa contro Hamas e gli Hezbol­lah.

Wolfowitz è uno stupido, commentava un (anonimo) alto funzionario del­la Cia interpellato dal Village Voice: "Nell'ambiente dello spionaggio sia­mo tutti d'accordo che, se vogliamo perseguire davvero la rete di Bin Laden, abbiamo bisogno di informazioni; e per questo dobbiamo lavo­rare con i nostri alleati [musulmani], e questo richiede cooperazione. Colin Powell ha fatto un buon lavoro in questo senso, mettendo assieme un'ampia coalizione e tenendola unita. Egli capisce benissimo che se colpiamo l'Irak, ogni coalizione si spacca in un nanosecondo. E colpire Hamas o gli Hezbollah sarebbe un terribile errore: [...] né l'uno né l'al­tro hanno compiuto atti aggressivi contro gli americani, e se li colpia­mo, cominceranno a prendere di mira interessi americani".

Fatto è, spiegava il periodico di New York, che Wolfowitz sta cercando di forzare la politica estera americana, spalleggiato da una sua "camaril­la" (cabal) al Pentagono. Ne fanno parte il sottosegretario alla Difesa Douglas Feith, i vicesegretari Peter Rodman e J.D. Crouch, il "camerata di sempre di Wolfowitz, Richard Perle", e i membri dello studio di consu­lenza militare Defense Policy Board, che Perle presiede; "inoltre, in modo

meno visibile, alcuni falchi del Dipartimento di Stato, che sono stati im­posti a Colin Powell [ministro degli Esteri], come il sottosegretario John Bolton. Per costoro, gli eventi di dite mesi fa [l'11 settembre] rappresen­tano quasi un'opportunità da sogno per realizzare il loro programma estremista".

Wolfowitz, Feith, Perle e Bolton sono ebrei. E praticamente tutti ebrei sono i membri della "camarilla", scatenatisi dopo 1' 11 settembre a co­gliere "l'opportunità da sogno".

Richard Perle, come sappiamo già, presiede il Defense Policy Board, un centro-studi privato (parte anch'esso della molto articolata lobby ebrai­-


 

ca) che fornisce, richiesto o no, "consigli" al governo. Il 19-20 settem­bre, mentre il fumo acre si levava ancora dalle macerie delle due Torri, i centro-studi di Perle tenne una riunione fiume di 19 ore cui parteciparo­no anche Donald Rumsfeld e Wolfowitz, ossia il ministro e viceministrc in carica. Ne uscì la proposta di una nuova guerra contro Saddam, e d: frazionare l'Irak in mini-stati etnici. Le proposte furono messe per iscrit­to, in una "lettera aperta al presidente", firmata da vari columnist ed "esperti" (primo firmatario, William Kristol, del Weekly Standard, pos­seduto dall'israelita britannico Rupert Murdoch). Nella lettera non s mancava di deridere Colin Powell per il suo sforzo di "costruire una coa­lizione" di paesi islamici contro il terrorismo. Un'altra lettera aperta fu spedita a Bush da un altro centro di studi strate­gici, Project for the new american century: i cui membri sono, notò il Vil­lage Voice, "glì stessi del Defence Policy Board' '.

La tesi generale di questi gruppi, ossia della "camarilla", è la seguente

"I legami tra Al Qaeda, Saddam, Hamas, Hezbollah, e in pratica ogni altro gruppo islamista, sono chiari e noti hanno bisogno di essere docu­mentati; di qui la necessità di un rapido dispiegamento di bombe, e sé possibile di truppe, in Irak, Siria e Libano" .

Dopo l'esplosione del caso dell'antrace (poi risultato originare dal labo­ratorio militare americano di Fort Detrick), Wolfowitz e i suoi si prodi­garono in immediate dichiarazioni pubbliche, per dire che questo fatte "provava" che Saddam era complice di Bin Laden, e reiterava il suo cal­do invito a 'liquidare gli stati che appoggiano il terrorismo, dovunque E

' Si noti che il nome di questo centro-studi, "Progetto per il nuovo secolo americano" ha un sapore Lubavitch. Sappiamo quale progetto il rebbe nutra per il "Nuovo Secolo" Di fatto gli stessi personaggi, capeggiati dal solito Perle, l'8 luglio 1996 scrissero un do­cumento che "consigliava" all'allora primo ministro di Israele, Ben Netanyahu, un "ta­glio netto" (a clean break) con il processo di pace. I suggerimenti comprendevano: l'oc­cupazione e l'annessione ad Israele della striscia di Gaza e dei West Banks, così ponen­do fine ad ogni autonomia palestinese; l'eliminazione di Saddam Hussein, e in prospet­tiva la destabilizzazione della Siria, dell'Iran e dell'Arabia Saudita.

 1 Village Voice, cit.


 

in ogni momento". A suffragio di questa tesi, citava uno studio di un ter­zo centro-studi, American Enterprise Institute (indovinate quali membri lo compongono).

Colin Powell dovette dichiarare pubblicamente - e lo fece con tagliente laconicità - che Wolfowitz, il vice ministro, "non parla a nome del go­verno".

Da più parti si fece notare che quei legami fra il dittatore irakeno e il fanatico saudita non erano affatto provati. Anzi erano praticamente da escludere.

A quel punto, attesta il Village Voice, Wolfowitz in persona spedì, a rac­cogliere le "prove" mancanti, un membro assai importante del Defence Policy Board: James Woolsey. Già direttore della Cia, Woolsey è anche membro del Council ori Foreign Relations (CFR).

È istruttivo sapere che già nel corso del 1998 il CFR aveva condotto un war-game, un "gioco strategico" simulato, dal titolo altamente significa­tivo: "The next financial crisis: warning signs, damage contro and im­pact" 3. Nel gioco si immaginava che "l'imminente crisi finanziaria"' avrebbe coinciso con un acuto allarme-terrorismo (quando si dice la chia­roveggenza); lo scenario utilizzato prevedeva che il presidente fosse li­quidato dai terroristi, sicché gli Usa sarebbero stati gestiti da un "comi­tato di crisi" non eletto.

Woolsey aveva partecipato a quella simulazione profetica. Ma di questo dovremo riparlare.

Per ordine di Wolfowitz, l'ex direttore della Cia si reca dunque in Gran Bretagna, alla ricerca di "prove" che collegassero uno dei presunti dirot­tatori del World Trade Center, Mohamed Atta (che aveva vissuto in In­ghilterra) con lo spionaggio irakeno. Prende contatto con esuli irakeni. Le sue ricerche lo portano nel paesello di Swansea, nel Galles. Ma essere stato direttore della Cia non garantisce di essere un bravo agente sul cam­po: Woolsey suscita l'attenzione della polizia locale che, a quanto pare, lo ferma. Controllo delle generalità, e incredulo stupore. Il capo della polizia allerta ScotlandYard. Conclusione: l'ambasciata Usa a Londra ri­-

' Executive Intelligente Review, 26 ottobre 2001.


 

ceve una richiesta di chiarimento: il dottor Woolsey sta svolgendo le sue indagini in veste ufficiale, o da privato? In tal modo, è dagli inglesi che la Cia e il Dipartimento di Stato vengono a sapere della misteriosa missione di Woolsey. Powell e Tenet (il nuovo capo della Cia) fanno filtrare la storia al Village Voice, nostra preziosa fonte di tutta la vicenda.

L'ottimo articolo di Jason Vest, pieno di sarcasmo e di intelligente cono­scenza dei retroscena, conclude tuttavia con un'ingenuità. Wolfowitz, dice, è stato "imbavagliato" e forse non nuocerà più. Grave errore: nonostante le gaffes, il goffo intrigo le falsità rivelate e le vere idiozie del gruppo ebraico, il presidente Bush sta attuando precisa­mente il piano della camarilla Wolfowitz. Mentre è Colin Powell, il mo­derato, ad essere imbavagliato ai margini del governo. "Ci stiamo avvian­do alla prossima Guerra dei cent'anni", annunciò (14 ottobre 2001) un anonimo membro della camarilla (probabilmente Perle) all'Observer di Londra; e difatti Bush parla di guerra "infinita", "di durata lunghissima". I termini sono praticamente gli stessi. Arafat, "da liquidare" secondo Wolfowitz, ha "deluso profondamente" Bush che non lo crede più un in­terlocutore valido. Eccetera.

Ma chi è l'origine di quella terminologia di guerra-apocalisse? Il 29 ot­tobre 2001 il già citato American Enterprise Institute (uno dei centri-stu­di di Perle e della lobby ebraica) ha tenuto una giornata di discussione. Moderata da Perle, la riunione ha visto la presenza di Michael Leeden. Una presenza illuminante per sé: ebreo, Leeden è stato coinvolto in non chiari affari di intelligente; in anni non troppo lontani ha abitato in Ita­lia, dov'era diventato un esperto del "terrorismo rosso"; più tardi, ha col­laborato alla Biblical Review, una rivista molto interessata alle ricerche "archeologiche" sull'esatta ubicazione del "Tempio" ebraico di Gerusa­lemme, allo scopo di tentare di ricostruirlo (scopo di parecchi gruppi fon­damentalisti ebraici).

Che cosa dice Leeden all' American Enterprise? Ecco le sue frasi esatte. "Basta coi compromessi. Questa è guerra totale. Combattiamo una quan­tità di nemici diversi, e ce ne sono a quintali. E tutto questo dire: be',

 

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prima andiamo in Afghanistan, poi finiremo l'Irak, poi ci guardiamo at­torno a vedere com'è la situazione, questo è il modo più sbagliato di af­frontare la cosa. Perché questi [i terroristi e gli stati islamici] si parlano l'un l'altro e lavorano tutti insieme. Dobbiamo semplicemente applicare la nostra visione del mondo, adottarla integralmente, e non tentare di essere intelligenti e rappezzare intelligenti soluzioni diplomatiche, ma sferrare una guerra totale contro questi tiranni: tutto andrà molto bene, e i nostri figli canteranno canzoni sulla nostra azione fra anni ed anni ancora" ' .

 

È, quasi parola per parola, lo stesso discorso che abbiamo trovato nei te­sti dei Lubavitch. La guerra totale, la guerra finale. La guerra messiani­ca. Inutile fare alleanze, perché nell'era del messia Israele non ha da fare concessioni. Il successo è assicurato dall'alto. Agli eroi di quest'epoca si canteranno inni.

E la politica degli Stati Uniti - all'insaputa dei cittadini, i goym che mo­riranno nella guerra dei cent'anni - è guidata completamente da questo spirito, da questo millenarismo paranoide.

1 Village Voice, cit.


                                                                                                                                                  Capitolo 8
                                                                    CHI È DOUGLAS FEITH

 

Douglas Feith, prolifico pubblicista, ha avuto modo di spiegare in lungi e in largo la sua visione del mondo. Essa è molto semplice, completamente manichea e del tutto sovrapponibile a quella dei Lubavitcher, ai cui riti e seminari partecipa: il male sta sferrando l'ultimo attacco contro il bene È una filosofia non del tutto opportuna in un sottosegretario del ministero della Difesa del paese più armato del mondo. La carica di Feith (vice ministro alla "Policy") ne fa il numero quattro al Pentagono, competenti

"per tutte le materie relative alla formulazione della politica di sicurezza nazionale e difesa, nonché alla integrazione e alla supervisione de piani del ministero".

Più specificamente, il nostro ministro ha i compiti di: "sviluppare le politiche di condotta delle alleanze e dei rapporti militari con i governi stranieri e i loro apparati di difesa" nonché "coordinare e controllar l'attuazione della strategia e politica di sicurezza internazionale su temi che hanno relazione con i governi esteri e i loro apparati militari". A Feith spetta infine il compito di "supervisione di tutte le attivit4 del Dipartimento Difesa attinenti al trasferimento internazionale di tecnologie".

Insomma, una posizione di potere cruciale. E preziosa per Israele, al cu servizio Feith, viceministro americano, svolge la sua opera da decenni. Ai tempi del l'amministrazione Reagan, Douglas Feith faceva parte delle staff della Casa Bianca per le questioni militari, ed era già vice-assister te del Pentagono per "le politiche negoziali". È stato anche "consigliere


 

speciale" di Richard Perle (ancora lui) quando costui fu vice-ministro della Difesa. Durò poco: un mai chiarito pasticcio riguardante il trasferi­mento illegale di tecnologie militari americane in Israele fece perdere il posto a Perle e ai suoi amichetti.

Ridotto a vita privata, Feith aprì allora il suo ufficio legale a Washington, "Feith & Zell". Come ci è già capitato di notare, lo studio ha una secon­da sede: in Israele. L'attività dello studio non riguarda cause civili né pe­nali, bensì in "trasferimenti di tecnologie, fusioni-acquisizioni e investi­menti nelle industrie di difesa e aerospaziali". Se non si trattasse qui di un insospettabile cittadino americano, anzi di un viceministro, si sarebbe tentati di definire questo studio legale, nel gergo dei servizi segreti, un'at­tività "di facciata" che copre una delle attività più importanti dello spio­naggio moderno: il furto di tecnologie militari.

Ma il sospetto non può applicarsi a Feith. Nei suoi numerosi scritti e di­scorsi ricorre il concetto che Israele rappresenta "i nostri valori" (ameri­cani): sicché è semplicemente necessario che gli Usa non solo assistano, ma si identifichino con Israele nella sua perpetua lotta contro "le forze oscure". Tali `forze oscure" sono gli arabi. Data la ovvia "superiorità morale" di Israele sugli arabi, è imperativo etico degli Usa rafforzare mi­litarmente lo stato ebraico. Quelli che Feith compie non sono dunque tra­sferimenti illegali di tecnologie. O se sono illegali secondo le leggi vi­genti, poco importa: sono morali, obbligatorie, secondo la "Legge" supe­riore del "popolo eletto". Un vero ebreo non si terrà mai legato da leggi emanate dai goym noachici.

Converrà ricordare ancora una volta che il messianismo Lubavitcher si oppone ferocemente ad ogni compromesso o concessione con i palesti­nesi, con l'argomento che l'era messianica è per definizione "un'era di conquista e di avanzata, non di arretramento". Ci stupirà apprendere che Feith sostiene la stessa cosa?

La sua idea è: gli Usa non devono mai fare pressioni su Israele perché ceda terreno o rinunci alla sua egemonia e supremazia militare in Medio Oriente. Negli anni '70, per questo, Feith criticò ferocemente gli incontri di Camp David, in cui l'allora presidente Jimmy Carter provò a tessere


 

la sua iniziativa di pace per il Medio Oriente. La parola "pace", gridò Feith, è in questo caso un falso politico, perché richiede ad Israele di in­debolirsi cedendo stabilmente "la Giudea e Samaria" (ossia Cisgiorda­nia e Gaza) '.

Invece, secondo Feith, "gli arabi non hanno alcun diritto legale in Pa­lestina" (i Lubavitcher sostengono la stessa cosa: i goym in genere non hanno diritti nella "Terra Sacra", una volta che il messia è arrivato). Peggio: i palestinesi non sono "un gruppo nazionale", e perciò non han­no diritto a una patria. Se mai ne hanno una, la loro patria è la Giorda­nia (dove andranno un giorno o l'altro deportati). Ne segue che gli Usa sbagliano a fare qualunque pressione su Israele perché smetta di inse­diare "colonie" nei territori occupati. Farlo è diritto sacro di Israele, anzi sacro dovere.

Di più. Credere che la causa del conflitto arabo-israeliano sia il fatto che i palestinesi sono privati della terra, disse Feith a Carter, significa cadere in un'astuta trappola araba. Costoro, le forze delle tenebre, non vogliono altro che la distruzione dello stato ebraico. La sola soluzione del conflit­to si avrà quando gli arabi saranno soggetti ad Israele.

Nel 1991, il nostro uomo elevò le stesse proteste e accuse contro il pro­cesso di pace tentato dal presidente Bush padre. L'Amministrazione ave­va lanciato allora lo slogan: "land  for  peace", terra ai palestinesi in cam­bio di un sicuro trattato dì pace di tutti gli arabi con gli israeliani. Gli Usa, obiettò Feith, devono lasciar cadere questo slogan. Ciò significa in fondo smantellare pezzo per pezzo lo stato ebraico. Dai palestinesi si deve esi­gere solo "pace", senza contropartite territoriali. Le stesse critiche e accuse furono ovviamente elevate contro il presiden­te Clinton, colpevole di aver avviato il suo proprio processo di pace con i negoziati di Oslo. Il tentativo, scrisse Feith, significa nient'altro che "con­cessioni unilaterali israeliane, inflazione delle aspettative palestinesi, e un premio americano all'insubordinazione dei palestinesi".

' È proprio degli ebrei religiosi fanatici chiamare Cisgiordania e Gaza coi nomi biblici di Giudea e Samaria, il che implica la pretesa assoluta - biblica e sacra - di Israele su quelle terre.

 


 

Feith e Perle, nel 1996, giunsero ad inviare una lettera aperta al primo ministro israeliano, l'appena eletto Netanyahu (del Likud, il partito neo­fascista israeliano), intitolata: a clean break: a new strategy for the secu­rity of the "Realm". Il titolo è significativo per sé: "un taglio netto: nuo­va strategia per la sicurezza del "Regno" '-.

La `frattura netta" consisteva, secondo i consigli dei due compari, nel rompere per sempre con il processo di pace, nel rifiuto definitivo dell'idea di cedere terra in cambio della pacificazione, e invece nel puntare tutto sul rafforzamento militare contro Siria e Irak. E la guerra contro l'Irak non doveva essere che il primo passo. Il rapporto di Feith e Perle caldeg­giava anche la preparazione strategica per destabilizzare, poi, anche la Siria, il Libano, l'Arabia Saudita. Fatto caratteristico, il documento "stra­tegico" di Perle e Feith uscì come opera di un Institute for Advanced Stra­tegic and Political Studies (IASPS): una fondazione culturale finanziata dal miliardario protestante d'estrema destra Richard Mellon Scaife e con sedi sia a Washington sia a Gerusalemme, Firmavano la lettera a Netan­yahu, oltre a Perle e a Feith, anche David Wurmser (ebreo, oggi braccio destro di John Bolton al Dipartimento di Stato) e Meyrav Wurmser (at­tualmente direttore del settore "politica mediorientale" allo Hudson In­stitute, un'altra fondazione "culturale").

Netanyahu deluse le aspettative. Di fatto, il primo ministro di destra è quello che ha concesso di più ai palestinesi, ponendo anche un freno ai nuovi insediamenti ebraici sulle terre degli arabi. Feith gridò, e scrisse, che invece occorreva "ristabilire una politica di sicurezza e di spionag­gio efficace nelle aree sotto controllo dell'autorità palestinese": in altre parole, rioccupare Cisgiordania e Gaza. Ciò che poi Sharon ha fatto con la scusa del "terrorismo", e provocando la metamorfosi maligna del ter­rorismo suicida. Feith l'aveva predetto, del resto: "il prezzo in sangue può essere alto", ma valeva la pena di pagarlo per la "disintossicazione" dal processo di pace. "Sola via di uscita dalla trappola di Oslo" 3.

z Dunque non più lo stato d'Israele, ma il "Regno" messianico.

Tutte le citazioni di Feith sono in Middle East Information Center (26 aprile 2002), "A Dangerous Appointment; Profile of Douglas Feith". Sito: middleeastinfo.org/article701.html.

Va ricordato che il duo Perle-Feith tornò all'attacco, proponendo le sue visioni strategiche a Bill Clinton. Il 19 febbraio 1998, essi stilarono una "lettera aperta al presidente" in cui ancora una volta premevano per sca­tenare la guerra contro l'Irak. La lettera era firmata, oltre che da Richard Perle e da un ex senatore, Peter Solarz, anche da una serie di personaggi che, oggi, ritroviamo nell'amministrazione Bush: Elliott Abrams (ora al National Security Council), Richard Armitage (oggi al Dipartimento di Stato), John Bolton (Dipartimento di Stato), Fred Ikle (Defense Policy Bo­ard), Zalmay Khalilzad (Casa Bianca). Peter Rodman (Dipartimento Dife­sa), Donald Rumsfeld (oggi ministro della Difesa), il già noto Paul Wol­fowitz, David Wurmser (oggi al Dipartimento di Stato), Dov Zackheim (Difesa) e naturalmente Douglas Feith. Nove su dieci dei firmatari sono ebrei.

Per allora, Clinton rigettò il consiglio. Ma nel dicembre dello stesso 1998, ormai sotto minaccia di impeachment per lo scandalo Lewinsky (in cui col senno di poi non sarà difficile scorgere quella che nel gergo dei ser­vizi si chiama "honey trap"," una trappola al miele a scopo di ricatto), Clinton cedette: ordinò 70 giorni di bombardamenti sull'Irak. L'azione non bastò a detronizzare Saddam.

Gli eventi dell' l 1 settembre hanno naturalmente portato alle stelle il feb­brile attivismo della rete filoebraica di Richard Perle. Poche ore dopo l'at­tacco, all'unisono con Sharon, Perle, Feith e Wolfowitz già accusavano del misfatto il leader iracheno e invocavano una massiccia e immediata rappresaglia.

Oggi Feith, da viceministro, può realizzare i progetti che caldeggiava da avvocato: "Israele ha un buon numero di tecnologie militari uniche - come gli aerei senza pilota ' e i missili aria-terra - che conviene alle for­ze armate Usa acquistare. Dato che il bilancio Usa alla difesa diminui­

 

 

Questo  accenno alla superiore tecnologia (segreta) israeliana in fatto di "aerei senza pilota" è assai interessante, alla luce del dirottamento di quattro aerei I' 1 1 settembre. Come abbiamo spiegato nel nostro "I1 settembre, colpo di Stato in Usa", Effedieffe, Milano, 2002, è stata avanzata l'ipotesi che i quattro aerei non siano stati dirottati da ter­roristi suicidi, bensì teleguidati.

 

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sce, è meno costoso per il Ministero acquisire queste tecnologie da Isra­ele che pagare per reinventarle". Naturalmente ciò deve valere anche nell’altro senso: gli Usa devono cedere le loro tecnologie all'alleato eletto. "È nell'interesse degli Usa e di Israele rimuovere tutti gli ostacoli inutili alla cooperazione tecnologica reciproca. Tecnologia nelle mani di paesi amici e responsabili che fronteggiano una minaccia militare, come Isra­ele, servono a dissuadere aggressioni, aumentano la stabilità regionale e promuovono la pace". Sic.

E per "promuovere la pace", il gruppo ha cominciato a proporre la se­conda parte del suo piano strategico, quello già proposto nel documento del '96 emanato dallo IASPS. Il 10 luglio 2002 il centro-studi privato di Richard Perle, il Defense Policy Board, riunito (incredibile a dirsi) all'in­terno del Pentagono, dichiarava l'Arabia Saudita nuovo nemico e stato­terrorista, e chiedeva l'occupazione del territorio saudita e dei suoi giaci­menti petroliferi, non senza esigere en passant anche l'epurazione dallo Stato Maggiore degli ufficiali americani che si opponevano a una guerra contro l'Irak.

Persino la grande stampa americana, solitamente servile, ha ridicolizza­to questa uscita. I fanatici della rete di Perle sono stati ribattezzati "chic­kenhawks", ossia "polli falchi". Ha avuto spazio, incredibile, persino una

battuta tagliente di Anthony Zinni, l'ex generale dei Marines inviato per una breve sfortunata missione di pace in Palestina da Colin Powell: "È interessante", ha detto Zinni in una conferenza tenuta a Tallahassee (Flo­rida), "che [sulla guerra all'Irak] tutti i generali la vedono in un modo, e quegli altri che non hanno mai sparato un colpo la vedono in un altro". Come la vedono i generali, l'ha raccontato il Guardian il 30 luglio 2002. Titolo dell'articolo: "i comandanti americani e inglesi si grattano la te­sta per dare un senso all'invasione". Nell'articolo, si cita il generale in­glese Michael Rose, già comandante delle truppe speciali (SAS) in Bo­snia: "Un attacco con forze di terra in grande stile contro l'Irak compor­ta gravi rischi militari e politici". Si cita il feldmaresciallo lord Bramall,

già capo degli Stati Maggiori Riuniti: per lui un'invasione dell'Irak get­terà "petrolio anziché acqua" sull'incendio mediorientale. E si domanda:


 

"ciò che verrei sapere è: che cosa diavolo facciamo una volta arrivati [a Baghdad]?". Il giornale britannico rende noto che gli strateghi professionali inglesi, sotto il comando dell'ammiraglio Michael Boyce, "con riluttanza cominciano a preparare piani in caso di un'attesa richiesta a Washington per l'attacco all'Irak". E dà voce a diversi alti ufficiali americani che esprimono gli stessi dubbi ma - significativamente - sotto anonimato. Al Pentagono, dopo 1' 11 settembre, è pericoloso esprimere opinioni diverse da quelle dei "polli falchi" che non hanno mai sparato u colpo. Il solo intervistato di cui il Guardian dà il nome è l'immancabile Richard Perle, il privato cittadino diventato consulente del Pentagono. La decisione di attaccare l'Irak, dice Perle, "è un giudizio politico che quei, tipi [i militari di professione) non sono competenti a dare". E infatti è il suo piano quello che l'intera America, soggetta alle leggi noachiche, è costretta ad attuare.



 

Capitolo 9

QUANDO BUSH NON PIACEVA

E pensare che, fino a pochi mesi prima, la comunità si abbandonava sospetti sul possibile "antisemitismo" di George Bush. Appena dopo l, discussa elezione (con poche centinaia di voti) del nuovo presidente Usa. il 5 gennaio 2001, The Jewish Week (un settimanale di New York) pub­blicava un articolo di deplorazione: "Il governo Bush al completo: nessun ebreo al tavolo" `.

Il nuovo governo, esordiva il periodico, pare essere uno dei più razzialmente assortiti della storia. "Ma questa diversità ha dei limiti. Il gabinetto comprenderà un democratico di origine giapponese, un ispanico, un arabo-americano e diversi afro-americani, ma nessun ebreo. Tuttavia si dice che l'ex sindaco di Indianapolis Stephen Goldsmìth, un intimo consigliere di Bush, sarà nominato capo di un nuovo ufficio della Casa Bianca pei le iniziative religiose. E un repubblicano democratico ci ha fatto notare che Joshua Bolten, nominato la settimana scorsa primo consigliere politico di Bush, è ebreo come il nuovo portavoce della Casa Bianca Ari Fleischer"

Dunque non proprio "nessun ebreo". Ma la comunità, evidentemente sperava in qualche ministro di primo piano.

L'articolo spira da ogni riga diffidenza verso il nuovo governo. È vero, i nuovo segretario al Lavoro, Linda Chavez, "è sposata a Chris Gersten

' Bush cabinet complete: no jews ati the table, di J.D. Besser, corrispondente da Washington di The Jewish Week.


 

già direttore esecutivo della Republican Jewish Coalition" 2. Tuttavia, in­tervistata dal settimanale, Ira Forman ("direttore esecutivo del National Jewish Democratic Council ") la trova troppo "di destra". Si apprende anche che "il National Council of Jewish Women" 2 ha formalmente pro­testato contro la nomina" di John Ashcroft alla Giustizia, perché troppo conservatore su temi come "i diritti civili, l'aborto e la separazione sta­to-chiesa". "Questi gruppi promettono battaglia totale contro Ashcroft, e vogliono tutti gli ebrei dalla loro parte".

Sembrano i lamenti di una sinistra molto progressista. Ma poi apprendia­mo che il malcontento ha anche un'altra causa: "L'amministrazione Bush non ha ancora dato segno di voler rinnovare la richiesta, avanzata da Clin­ton, di 800 milioni di dollari in aiuti supplementari per il Medio Oriente, fra cui i 450 milioni per aiutare Israele a rafforzare la sua difesa missili­stica e il pagamento per il ritiro [israeliano] dal Libano l'anno passato".

Quanto a Donald Rumsfeld, nuovo capo del Pentagono, il giudizio è fred­dino: "sui rapporti Usa-Israele è corretto ma non cordiale", dice Morris Amitay, un lobbista e raccoglitore di fondi della American Israeli Public

Affairs Committee (AIPAC)" 3. "Non ha mai davvero operato per un for­te collegamento con Israele", rincara Shoshana Bryen, "direttore del Jewish Institute for National Security Affairs" .

Qualche giorno dopo, il lamentò del Jewish Week viene raccolto e ampli­ficato da un editoriale del New York Observer a firma Philip Weiss: "ebrei nel governo Bush? Non sperateci" 4. L'articolo, per tanti versi rivelatore,

merita di essere riportato integralmente:

"George Bush", esordisce Weiss, "ha messo ogni genere di americani nelsuo gabinetto eccetto che ebrei, e nessuno ha deplorato questo (...]. Ri­-

 

Uno dei gruppi di pressione che compongono la cosiddetta "lobby israelita" in Usa.

' È l'entità-madre della lobby, la più temuta dai parlamentari: l'Aipac fornisce (o nega) contribuzioni finanziarie ai candidati alle elezioni americane ad ogni livello, secondo il loro grado di "amicizia" con Israele. È in grado di mobilitare decine di milioni di dollari e sbarrare la strada al seggio a qualunque candidato sgradito.

' "Jews in Bush's Cabinet? Don't hold your breath", sul New York Observer, 22 genna­io 2001, p. I.


 

fare la struttura di potere americano senza ebrei è come rifare lo sport senza i negri. Almeno quando si tratta di negri e sport, se ne può parla apertamente, puoi affermare che i negri hanno cambiato lo sport. Non è invece consentito parlare ad alta voce quel che tutti silenziosamente sa no: gli ebrei hanno cambiato l'America".

Come? Spiega Weiss:

"Non c'è area della vita pubblica su cui gli ebrei non abbiano avuto i profondo effetto (...]: il movimento dei diritti civili riflette i valori ebraici di giustizia. Il femminismo è un riflesso degli avanzati valori matriarcali ebraici (notate che sono gruppi ebraici ad opporsi ad Ashcroft nome della Roe v. Wade 5). Ebrei sempre più potenti nei media hanno creato l'epoca dell'informazione. Gli ebrei di Hollywood hanno cambiato linguaggio della cultura popolare (...]. E la nuova attenzione al miglioramento dell'istruzione in tutta la società riflette l'amore degli ebrei per lo studio. E non menziono nemmeno la finanza o il diritto [...]. "Queste tendenze hanno reso l'America un luogo più giusto e creati[ (...] Insieme, rappresentano la forza dei valori ebraici nel plasmare vita pubblica. In un saggio recente, Jews and The American Public Square, il Center for Jewish Community Studies 6 sostiene che sono stati g ebrei a promuovere l'importante tendenza della legislazione nell' ultimo mezzo secolo, la separazione stato-chiesa. Io vado oltre e sostengo cl non ci sarebbe stato il calo dell'influsso della chiesa sui costumi senza potere culturale degli ebrei secolarizzati "Ma nessuno parla di ciò. Il più importante cambiamento nella cultura dell'establishment, e non se ne fa' menzione. La gente parla di contino dei negri, come ha fatto la stampa durante la combattuta elezione in Florida ? come se negri ed ebrei avessero un'identità politica comune, il che

' Si tratta della sentenza storica con cui la Corte Suprema liberalizzò l'aborto. n Un altro (l'ennesimo) gruppo di pressione della lobby.

In Florida, il candidato repubblicano Bush jr. vinse per poche centinaia di voti. La comunità nera protestò che molti dei voti neri, andati ai democratici, erano stati annulla per supposti "errori". Il governatore della Florida era ed è Jeb Bush, fratello del canti dato eletto alla presidenza federale.

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non è - "Fin dall'inizio, la campagna di Bush ha rappresentato, nei cuo­ri di molti ebrei e apparentemente nel cuore dello stesso George W Bush (gran conoscitore di cuori) un tentativo di rovesciare gli ebrei nell'esta­blishment. La stampa ha saputo discutere questa lotta di potere solo in linguaggio codificato. Il più perfetto messaggio in codice è apparso nel­la lunga serie del New York Times dedicata alla vita di George [Bush], quando [il giornalista del Times] Nicholas Kristof si stupì che, quando Bush frequentava l'università di Yale, dirigeva tutta la sua animosità con­tro "gli oligarchi della Costa Est" .8 Ma, notava Kristof, George Bush è membro della Skull and Bones'. e questa non è un'oligarchia? "Nicholas Kristof sa bene cosa intende Bush (... ] perché è lui stesso parte della tendenza, come sono stato io ad Harvard. Sì, c'erano gli italo-ame­ricani, gli asiatici, ma il vero cambiamento epocale era che ebrei della classe media prendevano posti importanti nell'establishment. E Bush ha reso chiaro che cosa giudica minaccioso, con le sue nomine nel governo - "La stampa ebraica ne è preoccupata. Forward ha scritto che le nomi­ne del governo erano una simbolica "snobbatura". Phil Baum, direttore dell'American Jewish Congress si è fatto intervistare dal Jerusalem Post per dire che trovava l'assenza di ebrei "un po'allarmante" (...]. C'è sta­ta una lettera a The Times. William Safire ne ha fatto menzione. Richard Cohen ha deplorato il fatto sul Washington Post 10. Non molto di più."Il silenzio ebraico deriva da una profonda paura fra gli ebrei che que­sto momento di grande potere passerà, e che l'egemonia ebraica in Ame­-

" Con "The East Coast liberai establishment", l'America profonda indica l'ambiente di

 

potere finanziario e culturale di sinistra (liberai nel senso di radical-chic) della Costa Est,

ossia concentrato fra Washington, New York e Boston.

v Skull & Bones (Teschio e Tibie) viene chiamata dagli avversari la società segreta degli

studenti dell'esclusiva università di Yale. I membri la chiamano semplicemente The Or­

der. Ogni anno, 12 studenti selezionati per influenza e relazioni familiari vengono co­

optati nella Skull and Bones con un rito di iniziazione massonica. Spesso i capi della

Cia o i segretari di Stato vengono da lì. La famiglia Bush vi appartiene da almeno tre generazioni.

° William Safire e Richard Cohen sono due editorialisti principi sui due più importanti

giornali politici in Usa, il New York Ttnes e il Washington Posi . Ebrei entrambi.


 

rica è come l'egemonia ebraica nella Vienna del 1920, sospesa sull'orlo dell'abisso. Più è il potere, meno se ne vuole parlare. Benché Alan Deshowitz sostenga, nel suo robusto libro Chutzpah, che gli ebrei devono

darsi da fare per accaparrarsi ancora più potere senza relazione col loro numero, a causa della crescente invidia e del crescente antisemitismo. Tempo fa, a pranzo di un ebreo potente di una grande impresa di New York, io dissi ad alta voce la mia meraviglia per il proliferante numero di ebrei nell'establishment. L'altro alzò un dito minaccioso: "In ogni generazione, i nostri nemici si solleveranno per distruggerci". Citava l'Haggadah, la storia del Passaggio, e per il resto del pranzo mi ha pai lato commosso della stia visita alla casa di Anna Frank".

"Io volevo dirgli: un momento amico. Non in questo "Paese".

"Ma non l'ho detto. La storia ebraica di persecuzioni trascende i confini e la Costituzione. Un recente studio di un gruppo chiamato Public Agen da dice che l'80 per cento degli ebrei americani vedono l'antisemitismo come una forza potenziale nella vita americana, mentre solo il 55 pe cento dei non-ebrei vedono questa realtà. È una differenza gigantesca che riflette l'antica paranoia ebraica [...]". "Il problema con questa convinzione è che rende impossibile ogni discus sione sul potere degli ebrei in America. Se parli della influenza ebraica rischi un Olocausto. Così non c'è nessuna pubblica ammissione di un fàt to che quasi tutti capiscono: gli ebrei sono protagonisti nell'establishment '71 15 gennaio, il Centro di storia ebraica della 16ma strada ha tenute un dibattito sul tenia: "Il popolo ebraico nel ventesimo secolo dall'im­potenza al potere". La moderatrice, Sylvia Hassenfeld, ha detto che gli ebrei hanno ciecamente ignorato la questione; subito tre professori dei dibattito hanno cercato di smentire che gli ebrei siano potenti". "Ci sono tanti ebrei nei media che il cono di silenzio cade proprio là dove ti aspetteresti il più ampio dibattito. L'establishment ama dipingersi come un blando arcobaleno di personaggi eccellenti: tutti benvenuti, ebrei, gen­te dei quartieri alti, asiatici, ispanici. Detto fra parentesi, non affermo di sapere quanto è "ebraico" l'establish­ment. Venti per cento? Cinquanta? Io credo 30".

 


 

"Un'elite non è un male. La società, senza, non può operare. Ma la de­mocrazia richiede alle elites una certa responsabilità". [...]

"Gli ebrei sono degli insider fissati con la mentalità da outsider, dice Alan Mittelman, professore al Muhlenberg College e direttore del progetto Jews in the American Public Square. Siamo certamente parte di quello che si chiama establishment,. Ma continuiamo a pensarci come una mi­noranza avversata. Dobbiamo riorientare noi stessi verso un senso mag­giore di responsabilità, invece del senso di precarietà dell'emarginato. Mittelman vuole che gli ebrei in politica mostrino una maggiore flessibi­lità sul tema del buono scuola, che è sostenuto da tanti negri " [...] Ma su questa come su altre questioni, dice Mittelman, gli ebrei votano come emarginati, come se votassimo contro lo zar".

"[...] L'anno scorso il New Yorker pubblicò un rutilante profilo del pre­sidente uscente della Monsanto, Robert Shapiro, a firma dì Michael Specter. Il tema implicito dell'articolo era: ecco un ebreo dell'Upper West Side che ha fatto fortuna, dunque è meraviglioso! Il pezzo era notevole perché, per una volta, rovesciava l'ambientalismo tipico della rivista. Monsanto produce il Roundup, un erbicida che i "verdi" detestano, ma non si parlava del Roundup nell'articolo di Specter, che traboccava di orgoglio ebraico, di simpatia per il successo sociale ebraico - quello di mister Shapiro, e quello di Mister Specter Così funziona la meritocra­zia: l'uomo di successo ama chi ha successo, e tutti gli altri sono dei per­

denti".

"[ ...] Oppure prendiamo i continui attacchi a politici che magari visita­

no la Bob Jones University, i cui criteri intolleranti sono giustamente cri­ticati - quando i gruppi ebraici hanno ottenuto carta bianca per promul­gare politiche contrarie ai matrimoni misti [fra ebrei e non ebrei] che metà della popolazione ebraica, nei sondaggi, riconosce essere razziste (e pochi americani goym ne hanno sentito parlare)".

" I neri americani vorrebbero il buono-scuola da "spendere" in scuole di loro scelta, per sottrarre i loro tigli alle scuole pubbliche urbane, centri di criminalità e spaccio e dove non s'impara nulla. Gli ebrei, da radicali di sinistra, difendono invece la scuola pubblica obbligatori.


 

"Oppure il profilo della miliardaria] Hadassah Lieberman sul New York Times dove si diceva che costei era una benefattrice umanitaria pei aveva donato per le cause ebraiche. Non dovremmo allargare un po’ la  definizione?"

[...]

"Finché gli ebrei continuano a vedersi come senza-potere, non sapranno riconoscere gli effetti che hanno sulla società e, peggio, mancheranno abbandonare la privilegiata posizione di autocommiserazione per reni si conto della loro situazione reale: vincitori nel nuovo ordine.


 


 

Capitolo 10
LO STRANO CASO DI MAHMOUD

Nei giorni del suo insediamento, George W. Bush era accusato, o almeno sospettato dalla comunità, di essere poco amico delle cause ebraiche, i degli interessi di Israele. Oggi Bush jr. è il più acceso dei filo-israeliani anzi del radicalismo biblico armato di Ariel Sharon. Mai una critica a discutibile premier di Tel Aviv. Sharon ha fatto fallire scientemente il pro cesso di pace con la sua "passeggiata" (scortato da mille guardie del corpo) sulla spianata del Tempio; ha tentato seriamente di liquidare (e noi solo in senso politico) Yasser Arafat; si rifiuta di riconoscere la causa prima dei disordini sanguinosi in Palestina, la moltiplicazione degli insedia menti su terre palestinesi. Bush avalla tutto. Le visioni fanatiche di Richard Perle e Paul Wolfowitz sono diventate IE sue: guerra all' Irak, e poi altri altri stati "terroristi" islamici. La sua evocazione di un "asse del male" islamico echeggia la concezione messianica dei Lubavitcher: "Siamo in guerra", ed è la guerra finale del bene contro il male assoluto. Il moderato Colin Powell non riceve mai chiaramente l'appoggio presidenziale, e viene lasciato solo.

Ci sono due Bush: prima e dopo VI 1 settembre 2001. Quello di prima appare poco amico dei giudei. Quello di dopo sembra un subordinato noachico, che mette la forza, il prestigio e il futuro della superpotenza mondiale a disposizione del più feroce avventurismo israelita. In un precedente volume' abbiamo illustrato le ombre che rendono cos

 

 

 

 

' M. Blondet, 11 Settembre, Colpo di Stato in Usa, Effedieffe, Milano, 2002.


 

poco convincente la versione ufficiale secondo cui il quadruplice attacco terroristico, operazione di straordinaria complessità tecnica perfettamente riuscita, fu opera di "terroristi suicidi" arabi collegati ad Al-Qaeda. Depi­staggi, insabbiamenti, mancanza di indagini serie su quel che è avvenuto. Ancora oggi, nel momento in cui scriviamo, manca un'inchiesta sui fatti dell' I 1 settembre: nessun giudice americano esamina testimonianze e do­cumenti. Nemmeno l'inchiesta tecnica, obbligatoria in qualunque sciagura aerea, è mai cominciata.

Sono in corso invece le audizioni delle commissioni congiunte (Camera dei rappresentanti e Senato Usa) sul controspionaggio (Intelligence Committee), riunite come commissione d'inchiesta politica sui fatti dell' 11 settembre. Hanno luogo al quarto piano del Campidoglio e sono rigorosamente segrete. Senatori e rappresentanti, prima di varcare la soglia del locale insonorizza­to dove si tengono le audizioni, devono consegnare i telefoni cellulari. Ha fatto rumore sulla stampa, e irritato la Casa Bianca, una fuga di notizie in­quietante: la richiesta dell'Fbi ai membri della commissione congiunta, eletti del popolo, di sottoporsi al poligrah, la macchina della verità, per col­pire gli autori di eventuali indiscrezioni su ciò che si dice in aula. Richiesta inaudita in Usa: gli eletti, depositari della volontà popolare, vengono subor­dinati al potere esecutivo al punto da essere sottoposti ad esame poliziesco. Quale genere d'informazione si vuole nascondere, e a chi? All' "asse del male" o ai cittadini?

Michel Chossudovsky, docente di Economia all'Università di Ottawa, ha provato a darsi una risposta. Chossudovsky, canadese, è un convinto an­tiglobal, di sinistra (dirige il Centro ricerche sulla globalizzazione); ma è anche una personalità nota, e di comprovata onestà intellettuale. E su quel che ha scoperto - compulsando le trascrizioni delle conferenze-stampa e delle Camere, ossia i pochi documenti non coperti da segreto di Stato - ha scritto una dotta e accurata relazione dal titolo Political deception: the missing link behind 9-11 È la fonte cui ci riferiamo.

2 II testo (titolo: Inganno politico, l'anello mancante ai fatti dell' 1 1 settembre) è pubbli­cato dal Center for research and globalisation, 20 giugno 2002. Si veda su internet l'arti­-


 

Che cosa ha scoperto il professore? Che il principale finanziatore di Al Qaeda, durante l'attacco alle Torri e al Pentagono e nei giorni preceden­ti, era a Washington, dove ha avuto lunghi e cordiali colloqui con altissi­me personalità del governo americano. II finanziatore è il generale pakistano Mahmoud Ahmad. Ossia l'uomo che - capo dei famigerati servizi segreti del suo paese, l'ISI - ha più te­nacemente operato per consegnare l'Afghanistan al regime fondamenta­lista dei talebani, questi "studenti coranici" allevati e addestrati in Paki­stan. Il generale ha condotto queste operazioni (e chissà quali altre) in pieno accordo e cooperazione con la Cia, già negli anni dell'occupazio­ne sovietica dell'Afghanistan. "La Cia ha lavorato in tandem col Paki­stan per creare il mostro del regime talebano" (Times of India, 3 luglio 2001). Ovviamente il generale conosce bene Bin Laden (una sua creatu­ra), che era a quei tempi il reclutatore dei mujaheddin antisovietici. È uomo ben noto agli ambienti dell'Intelligente di Washington. Ma in quei giorni, quando sbarca nella capitale americana, Mahmoud Ahmad non è più il capo dell'ISI. Come scrive l'importante Times of In­dia il 9 ottobre 2001, "le autorità americane hanno chiesto la sua rimo­zione [al regime pakistano] dopo aver avuto conferma che 100 mila dol­lari erano stati accreditati per via elettronica dal Pakistan al [capo dei] dirottator[i] del World Trade Center, Mohamed Atta, attraverso Ahmad Sheik su istanza del generale Mahmoud". Il quotidiano di Delhi aggiun­ge: "alte fonti del governo [Usa] hanno confermato che l'India ha dato un significativo contributo nel collegare il trasferimento di fondi con il ruolo giocato dal dimissionario capo dell'ISI". Dunque: il generale Mahmoud ha pagato Mohamed Atta. Lo paga eviden­temente perché lo "controlla", e dunque controlla la rete di Al-Qaeda, ammesso che Atta appartenga ad Al-Qaeda. Inoltre, è stato bruciato dai servizi segreti indiani, che l'hanno additato agli Stati Uniti come il finan­ziatore del gruppo terrorista che ha colpito l'America.

colo del giornalista Tom Fiocco (di Scoop.co.nz) sulla scoperta di Chossudovsky, "Se­

cret hearings conceal  9/11 terrorist links to Congress and White House", posted 7 ago­sto 2002.

 


 

Insomma: se c'era un posto dove una spia esperta come il generale Mah­moud avrebbe evitato di trovarsi in quei giorni - l'ora zero degli attentati - quel posto è Washington. In mano agli americani, e complice evidente di Al-Qaeda. Gli americani hanno chiesto persino la sua testa al governo del Pakistan.

Invece è lì. Tranquillo. Oppure ignaro di quel che il suo controllato, Mohamed Atta, sta per fare.

Quando è arrivato il generale? Il 4 settembre, risponde il News Pakistan del 10 settembre 2001, aggiungendo: "La permanenza di una settimana di Mahmoud a Washington ha scatenato speculazioni sui temi del suo misterioso incontro al Pentagono e al Consiglio di Sicurezza Nazionale (...] Fonti ufficiali confermano che ha incontrato Tenet [George Tenet, capo della Cia] questa settimana. E ha avuto lunghi colloqui con perso­nalità non identificate alla Casa Bianca e al Pentagono. Ma l'incontro più importante l' ha avuto con Marc Grossman, [l'ebreo] sottosegretario di Stato per gli affari politici. Si può avanzare la fondata ipotesi che le discussioni debbano avere avuto per argomento l'Afghanistan e Bin La­den".

Attenti alla data: 10 settembre. Un giorno prima degli attentati. Come spiegherà il Miami Herald (16 settembre 2001), "il capo dell'in­telligence pakistana è stato obbligato a restare tutta la settimana a cau­sa del blocco del traffico aereo" seguito agli attentati dei "terroristi sui­cidi". Anzi il giornale di Miami riporta una frase di Bob Graham, sena­tore democratico della Florida, e oggi, guarda un po', copresidente della Commissione congiunta d'indagine parlamentare sui fatti dell' 11 settem­bre. "Graham ha detto: [Mahmoud] è rimasto a terra, e credo che ciò abbia dato al segretario di Stato Powell e ad altri nell'Amministrazione la possibilità di parlare con lui davvero".

Il Washington Post, 18 settembre, dà un altro particolare. Riporta una frase piccata di Porter Goss (repubblicano della Florida) che oggi è l'altro co­presidente della Commissione congiunta sulla strage. Si noti: Goss e Graham stavano facendo una prima colazione di lavoro con in generale Mahmoud quando la quadruplica tragedia era in corso, come spiega il


 

giornale. Le Torri esplodevano, il Pentagono era in fiamme, e l'ufficiale pagatore di Atta era a tavola con i due capi delle commissioni sui servizi

segreti. "Dunque, mister Goss, vi avrà detto cose molto interessanti il generale?", chiede il giornalista. Risposta di Goss: "Niente di veramente nuovo, ma tutto fa parte del fingerpointing".

Fingerpoint  significa "segnare a dito". Dire, senza prove, chi sono i col­pevoli di un fatto. O additare colpevoli che non lo sono. La cosa colpisce il professor Chossudovsky: "Questa dichiarazione vie­ne dall'uomo che era a tavola con il presunto finanziatore dei fatti dell'11 settembre, la mattina dell'11 settembre".

Non è tutto. Secondo il New York 7cmes del 14 settembre, l'ex capo dell’ISI licenziato per ordine degli americani incontra, anche Colin Powell e il suo vice Richard Armitage, il sottosegretario di Stato Marc Grossman, il senatore Joseph Biden, democratico e presidente della Commissione Esteri al Senato. Insomma, un vero amico. Anzi di più. Il generale paki­stano si intrattiene anche con George Tenet, capo della Cia. E in quei gior­ni specialmente, Tenet incontrava tutte le mattine il presidente Bush, dal­le 8 per mezz'ora, per il briefing quotidiano dei servizi. In genere l'informativa della Cia, "President daily briefing", è un docu­mento scritto. Ma "Tenet lo cura personalmente e lo pronuncia oralmen­te durante i suoi incontri mattutini con Bush" (Washington Post, 17 mag­gio 2002). Sicché non resta traccia scritta di quel che viene detto, e pro­prio nei giorni dell'attacco. Fatto che non ha precedenti, secondo Chos­sudovsky.

Meglio se, come dice il Washington Post (29 gennaio 2002), `fra Bush, che preferiva l'informativa orale, e il direttore della Cia presente, s'è svi­luppata una forte relazione. Tenet può essere diretto, anche irriverente e franco".

Chissà come l'avrà francamente informato dei suoi colloqui col finanzia­tore pakistano di Atta, quello che secondo la versione ufficiale è il "ter­rorista suicida" per eccellenza.

Il fatto è che, ha scoperto Chossudovsky, la Casa Bianca ha cercato di cancellare il ricordo del generale Mahmoud. È avvenuto nel maggio del

 


 

2002, quando sui giornali ha ripreso a correre la notizia che "il presi­dente sapeva in anticipo di un possibile dirottamento" dell' 11 settem­bre. Più precisamente, il New York Times (20 maggio 2002) cita "un rap­porto del 1999 del National Intelligence Council [...] il quale diceva che attentatore/i suicidi del battaglione martiri Al-Qaeda poteva lan­ciare un aereo carico di esplosivo sul Pentagono, i quartieri della Cia o la Casa Bianca".

Per l'entourage del presidente Bush, è urgente ridurre il danno di queste voci. Il 16 maggio, alle 4 del pomeriggio, Condoleeza Rice, la consiglie­ra per la sicurezza nazionale, tiene una conferenza stampa di spiegazio­ne, per calmare la stampa. I giornalisti fanno domande, e qualcuno chie­de alla Rice della presenza a Washington del generale Mahmoud. Come al solito, la trascrizione della conferenza-stampa appare sul sito internet della Casa Bianca.

Il riferimento all'ex capo dell'ISI è stato cancellato.

La trascrizione ufficiale risulta così:

"Giornalista: dottoressa Rice! Dottoressa Rice!

Rice: sì?

Giornalista: è al corrente dei rapporti di quei giorni secondo cui era a

Washington l'Il settembre, e il 10 settembre dal Pakistan 100 mila dol­lari erano stati trasferiti a quei gruppi in quest'area? E perché era qui?

Aveva incontri con lei o altri nell'amministrazione?

Rice: "non ho visto quei rapporti, e sicuramente non s'è incontrato con me".

Constatate quelle lineette messe al posto dove dovrebbe leggersi "il capo dell' ISI, il giornalista Toni Fiocco ha telefonato alla CNN per avere, del­la conferenza stampa della Rice, la trascrizione del network televisivo. Nella trascrizione della CNN, risulta che al posto delle lineette c'è la pa­rola "inaudible", "non sentito" dallo stenografo.

Insomma resta il dubbio. Un altro dubbio. Unito ai tanti che sorgono dal­la presenza del generale capo dell'ISI, e dei suoi colloqui con personali­tà di altissimo livello del governo Usa, nelle ore stesse in cui si svolgeva il più atroce atto terroristico subito dalla nazione americana. Il generale Mahmoud, pagatore di Atta, era ignaro nella capitale Usa quando Atta, il


 

presunto capo dei presunti suicidi, metteva a segno l'attacco. Ne è colto di sorpresa, al punto da farsi lasciare a terra dal blocco del traffico aereo seguito all'attentato, e durato più giorni. Non viene interrogato né inqui­sito. Anzi ha colloqui e colazioni di lavoro, da pari a pari, con ministri e membri del Congresso che dovrebbero controllare l' intelligence. E non sa dire "nulla di nuovo", tranne "indicare a dito", fare delle ipotesi. È credibile? O ciò non implica l'esistenza di legami inconfessati e da non confessare tra il finanziatore del terrorismo e membri del governo e del Congresso? Che costoro, gli americani del potere, sapessero molte cose, troppe, sulla tragedia del World Trade Center, in anticipo? E che su que­sta strana vicenda non ci sia alcuna voglia di fare luce? Ogni sospetto è lecito. Tanto più quando si apprende che Porter Goss, capo della Commissione Servizi Segreti alla Camera dei rappresentanti, è lui stesso "un ex funzionario della Cia". Come co-presidente della Com­missione congiunta sulle indagini, sarebbe nella posizione migliore non per fare luce, ma per insabbiare. Difatti, proprio Goss ha chiesto che la Commissione, insediata nel tardo settembre 2002, chiuda i suoi lavori in tempi relativamente ristretti, per gennaio 2003. Quattro mesi: le persone della Cia e dell'amministrazione che saranno convocate hanno modo di tirare in lungo, far scadere i tempi e così negare informazioni imbaraz­zanti. Del resto, la Casa Bianca di Bush ha insistito a limitare l'indagine, per "non sottrarre tempo ed energie" a persone dell'intelligence impegna­te nella lotta contro 1`asse del male". E ciò, mentre Bush e i suoi - con quei legami con il finanziatore dei ter­roristi, con quella strana accusa continuamente pendente che "sapessero in anticipo" e non abbiano fatto niente per impedire il disastro, paiono sotto controllo di una potenza straniera 3.

' Lo ha detto, e non poteva dirlo meglio, radio Kol Ysrael il 3 ottobre 2001 nel suo noti­ziario in ebraico. Shimon Peres (il ministro degli Esteri), ha detto la radio, ha messo in guardia Ariel Sharon (primo ministro) che il suo ostinato rifiuto di accedere alla richie­sta americana di sospendere le operazioni contro i palestinesi rischia di "danneggiare gli interessi israeliani" e "metterci contro gli americani". A questo punto, sempre secondo


 

 

 

Paiono? Ci corre qui l'obbligo di segnalare l'opinione di un personaggio discutibile, ma in grado di sapere. È il generale pakistano Hamid Gul, uno degli uomini dei servizi segreti che, dal Pakistan, "hanno messo in moto gli eventi che hanno distrutto l'Unione Sovietica": così lo presenta il pe­riodico New Yorker, che lo intervista nel numero del 3 dicembre 2001. L'allusione è alle oscure e annose operazioni di assistenza, intraprese in cooperazione fra la Cia e il suo omologo pakistano, l'ISI, del movimento mujaheddin che ha contrastato l'occupazione sovietica dell'Afghanistan. Basta riportare poche righe.

"L'attacco dell'11 settembre, ha detto [il generale Gul], è stato parte di un complotto molto più vasto, un colpo di stato tentato contro la Casa Bianca. Io [è la giornalista Isabel Hilton che parla] gli ho chiesto chi ci fosse dietro, immaginando in anticipo la risposta. "Ariel Sharon, mi ha risposto. Il primo ministro israeliano è stato infu­riato dal fatto che George W. Bush fosse arrivato alla Casa Bianca. Era Al Gore [il candidato democratico, che s'era scelto come vicepresidente l'israelita Lieberman] l'uomo che Israele aveva scelto.

"Il generale Gul poi ha elencato quelle che, ha detto, erano le richieste di Israele: la distruzione del programma nucleare del Pakistan, il disar­mo dei suoi vicini arabi, il riconoscimento di Gerusalemme come capi­tale israeliana, e un "No" definitivo a uno stato palestinese".

Il generale Gul adombra che Bush jr. sia vittima di un ricatto? Natural­mente non è obbligatorio credere a uno stratega di uno dei più feroci ser­vizi segreti dell'Asia, che ha trascorso una vita nell'ambiente dove men­zogna e disinformazione sono moneta corrente. Tuttavia si metta agli atti questa sua dichiarazione. E il fatto che essa è raccolta non da un giorna­letto di complottisti paranoidi, ma dalla rivista più chic di Manhattan 4.

la radio, un furioso Sharon avrebbe replicato: "Ogni volta che facciamo qualcosa tu dici che gli americani faranno questo e quello. Voglio dirti una cosa chiara: infischiatene delle pressioni americane. Noi controlliamo l'America, e l'America lo sa". Peres e altri ministri, ha aggiunto la radio, hanno esortato Sharon a non dire cose del genere in pub­blico perché "possono provocarci un disastro d'immagine".

° The New Yorker, "The Pashtun code", di Isabel Hilton, 3 dicembre 2001.


                                                                                          Capitolo 11
                                                           IL FURGONE BIANCO

 

 

Ho raccontato in un precedente saggio1 come, nei mesi precedenti l'attacco terrorista al World Trade Center e poi nelle febbrili settimane seguenti, si sia parlato di decine di agenti israeliani fermati negli Stati Un ti, dove stavano conducendo imprecisabili operazioni. Ho detto anche come la notizia, apparsa a tutta prima su vari giornali americani, sia stata smentita e soppressa.

Ma la notizia, ostinata, riemerge. Il 21 giugno 2002 il telegiornale de network televisivo ABC, "ABC News", ha rivangato parte della storia, coi nuovi istruttivi particolari.

I giornalisti sono andati a parlare con la testimone ("Maria") che l' I 1 settembre, dal suo appartamento dei New Jersey in vista delle Torri, vidi volgersi il disastro nel cuore di Manhattan. "Maria", col suo binocolo vide però anche un'altra scena. Più vicina, e assai sospetta. Tre giovani erano saliti sul tetto di un furgone bianco fermo nel parcheggio del suo condominio. "Sembrava stessero riprendendo un film". Più  precisamente, i tre "si scattavano foto a vicenda sullo sfondo del Work Trade Center in fiamme. Quel che colpì Maria fu l'espressione delle ton facce. Erano come contenti, capite. Non sembravano colpiti. Mi è parse molto strano".

La testimone si scrisse il numero di targa del furgone, e chiamò la polizia.

 

' M. Blondet, "Il Settembre, colpo di Stato in Usa", cit. p. 65-71.

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Il veicolo risultò appartenere alla Urban Moving, una ditta di traslochi locale.

Alle 4 del pomeriggio degli agenti rintracciarono il furgone parcheggiato su una corsia di emergenza della superstrada numero 3, presso il Giants Stadium. A bordo c'erano cinque uomini tra i 22 e i 27 anni. Frugati e interrogati sul posto, uno di loro risultò in possesso di 4700 dollari in con­tanti (nove milioni di vecchie lire) nascosti in un calzino. Un altro esibì due passaporti stranieri. E tutti si dichiararono cittadini israeliani. Secondo il rapporto degli agenti, letto da ABC, il guidatore del furgone, Silvan Kurzberg, disse loro: "Siamo israeliani. Non siamo noi il vostro problema. I vostri problemi sono i nostri. I palestinesi sono il problema".

Alle quattro del pomeriggio dell' 11 settembre, quando il mondo non sa­peva ancora nulla sulle menti degli attentati, i cinque facchini di un'agenzia di traslochi già erano in grado di indicare i colpevoli: "i pa­lestinesi", erano loro i "terroristi". La linea che Sharon avrebbe tenuto ore dopo.

Tutti in galera: Silvan Kurzberg e suo fratello Paul, Yaron Shmuel, Oded Elner e Omer Marmar. Però, da quel momento, il loro caso viene preso in carico dall'Fbi, Foreign Counterintelligence Section. Secondo ABC, "il trasferimento di competenze, secondo le nostre fonti, ebbe luogo perché l'Fbi riteneva la Urban Moving una possibile copertura per un'opera­zione di intelligence israeliana".

Gli uffici della ditta di traslochi, localizzati a Weekhawken (New Jersey) furono perquisiti. Per diverse ore l'Fbi asportò documenti e hard disk dei computer, ispezionò casse di trasloco. Fu ovviamente interrogato il pro­prietario della Urban Moving. "Il suo avvocato", dice la ABC, "insiste che il suo cliente ha risposto a tutte le domande. Ma quando l'Fbi ha cerca­to di interrogarlo di nuovo giorni dopo, l'uomo era sparito".

Tre mesi dopo i fatti, le telecamere di "2020" (un programma della tv) entrarono negli uffici abbandonati della Urban Moving: "Sembrava che l'attività fosse stata chiusa in gran fretta. C'erano telefoni cellulari ab­bandonati attorno; le linee dei telefoni fissi erano ancora attive; e i mo­bili di decine di clienti erano stati lasciati nel magazzino. Il proprietario


 

aveva lasciato anche la sua abitazione in New Jersey, la quale era in ven­dita, e tornato con la famiglia in Israele".

Secondo l'avvocato degli israeliani, Steven Gordon, i suoi clienti erano solo dei giovanotti: venuti in America in vacanza, avevano finito per tro­var lavoro come facchini di traslochi. I cinque ragazzoni erano detenuti al Metropolitan Detention Center di Broocklyn solo perché avevano i vi­sti scaduti e avevano lavorato illegalmente in Usa. Dopo due settimane, un giudice ordina l'espulsione dei cinque per il visto scaduto. La decisione però, sostiene la ABC, viene bloccata dai funzionari dello Fbi e della Cia: a quanto pare perché i nomi di alcu­ni degli arrestati risultano in un archivio di agenti dei servizi israelia­ni. Così, la detenzione dei sospetti durerà due mesi. Alcuni di loro sono tenuti in isolamento; altri vengono sottoposti a numerosi test della macchina della verità. Paul Kurzberg rifiuta per dieci settimane il test con la macchina, adducendo di "aver lavorato in passato per l'intelligente israeliana in un altro paese". Alla fine accetta, e non passa il test.

Dopo 71 giorni in carcere, e "un accordo raggiunto tra funzionari dei governi Usa e israeliano" aggiunge ABC, i cinque vengono caricati su un aereo e rispediti a Tel Aviv. La rete tv intervista Mark Regev, portavo­ce dell'ambasciata d'Israele. "Quei cinque non conducevano alcuna ope­razione di spionaggio in Usa", è l'ovvia replica, "e le autorità del con­trospionaggio americano non hanno mai sollevato la questione con noi. La storia è semplicemente falsa".

 

Addirittura falsa. Storia mai esistita. Non è però il parere della ABC o meglio delle sue anonime fonti. Le quali badano a dire che i cinque, for­se, facevano parte sì di un'operazione spionistica, ma rivolta "ai fonda­

mentalisti islamici nell'area New Jersey e New York". In ogni caso, si af­frettano ad aggiungere, i cinque "non avevano conoscenza in anticipo degli eventi dell'11 settembre".

La vicenda viene sepolta nel silenzio. Definitivamente? No. In qualche modo, ostinata, riemerge.

 

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Riemerge, per esempio e sorprendentemente, in un documento dell'Uf­ficio italiano dei cambi, datato 4 febbraio 2002. Una circolare a banche e assicurazioni. Che esordisce: "Le autorità statunitensi impegnate ne­gli accertamenti relativi ai fatti di terrorismo internazionale hanno tra­smesso un ulteriore elenco di nominativi affinché, assicurando la riser­vatezza, siano acquisite informazioni utili per la ricostruzione di even­tuali movimentazioni finanziarie ad essi riferibili. Come nelle preceden­ti occasioni, si invia la lista in questione...". Segue l'invito "a segnala­re allo scrivente" (il direttore generale dell'Ufficio cambi) "ogni infor­mazione rilevante".

Segue la lista. Decine di nomi quasi tutti arabi (ma ci sono anche cinque americani). E, tra questi, uno: Dominik Suter. Ultimi indirizzi conosciu­ti: 28, Harlow Crescent road, New Jersy; 312 Pavonia avenue, Jersey City, e Dickens Suite 11 Sherman Oaks, California.

Chi è Dominik Suter? È il proprietario della Urban Moving. L'israeliano che ha abbandonato in gran fretta la sua ditta ed ha preso il largo. È an­cora ricercato dalle "autorità americane", o almeno si vogliono sapere movimenti finanziari che lo riguardano.

Dunque la storia non è "semplicemente falsa".

No, decisamente non lo è. Anzi storie simili, ostinatamente, riemergono dove meno ce lo si aspetta. Sul Seattle Post del 14 maggio 2002.

Il 7 maggio scorso, racconta il giornale di Seattle, un furgone di una ditta di traslochi è stato fermato per eccesso di velocità a Oak Harbor, vicino a Widbey Island, dove è situata - si noti - una Naval Air Station che è la base degli aerei da sorveglianza elettronica "Prowler". Ciò che insospet­tisce i poliziotti è il fatto che sul furgone ci sono due uomini "medio orientali" (più avanti si specifica: israeliani) di cui uno esibisce una pa­tente internazionale e un visto scaduto, e l'altro nessun documento. Di­cono di essere lì per consegnare mobili, e di stare tornando in Canada. Ma è mezzanotte, ora strana per i traslochi.

Viene chiamato un cane da fiuto capace di annusare esplosivi: il cane "sente" qualcosa sul volante e sulla leva del cambio, anche se la perqui­sizione seguente non porta a scoprire nulla.


 

Naturalmente, forse già lo indovinate, l'Fbi si affretta a chiudere il caso: è solo una violazione alle norme sull'immigrazione. Il cane deve a scambiato per esplosivo l'odore di sigarette. Sarà. Ma questa storia somiglia troppo all'altra del New Jersey. Un furgone. Una ditta di traslochi. Due israeliani con documenti Irregolari. Possibili tracce di tritolo. Vicini a una base militare.

Questo tipo di storie è ostinato. Anche perché, par di capire, furgoni aziende di traslochi con israeliani a bordo, ostinatamente continuano, circolare per gli Stati Uniti per svolgervi il loro "lavoro".

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Capitolo 12

I "SUICIDI' SONO VIVI

A sole 48 ore dalle stragi dell' 11 settembre, l'FBI emanò una lista dei 19 "attentatori suicidi" che avevano preso possesso degli aerei. Nomi, co­gnomi, foto-tessera. Risultato di un'indagine finalmente fulminea.

Il punto è che già il 20 settembre il ministro degli esteri saudita Saud Al­-Faisal, in un colloquio con il presidente Bush, gli rendeva noto che - stan­te le indagini compiute dagli agenti sauditi - "cinque dei nomi compresi

nella lista dell'FBI non hanno nulla a che vedere coi fatti". Said Algham­di, Mohand Alshehri, Abdul Aziz Alomari e Salem Alhazmi "non sono morti e non c'entrano con l'odioso attacco a New York e Washington".

Solo uno, Khalid Al-Mihdar, uno dei presunti dirottatori del tragico vola 77, era risultato introvabile. Ma secondo la polizia saudita era vivo an­che lui.

Walid Alshehri, il pilota che nella versione ufficiale dirottò il volo 11, è effettivamente un pilota professionale: addestrato alla Embry-Riddle Aeronautical University, lavora regolarmente per la Royal Air Moroc, la compagnia aerea marocchina, la quale sostiene che il personaggic abita a Casablanca. La Associated Press ha confermato la notizia il 22 settembre, rendendo noto che Alshehri, "la cui foto è stata divulgata dall'FBI e ripresa da giornali e tv di tutto il mondo", s'è fatto vivo con l'ambasciata Usa in Marocco "dimostrando chiaramente che non era membro del commando suicida". La BBC riprende la notizia il 23 settembre 2001.

Abdul Aziz Alomari, anche lui, doveva essersi schiantato sul volo 11

 


 

Invece riappare. Anzi ne riappaiono due. Un Al-Omari "pilota della Saudi Airlines s'è presentato all'ambasciata Usa a Jeddah per chie­dere spiegazioni, stupefatto di essere accusato di dirottamento" (In­dependent, 1 settembre 2001). Un altro Al-Omari si mette in contatto con le autorità saudite. Anche lui stupito di essere nella lista, con nome e data di nascita esatta. E racconta: nel 1995, mentre ero stu­dente di ingegneria elettrica all'Università di Denver, qualcuno mi rubò il passaporto. Allora ne feci regolare denuncia (Telegraph, 23 settembre 2001).

Said Alghamdi doveva essere, con altri due complici votati alla morte, sul tragico volo 93. Invece lavora - anche lui è pilota di linea - per la Tunis Air. "Sono completamente sconvolto", racconta al Telegraph (23 settem­bre 2001): "Negli ultimi dieci mesi ho abitato a Tunisi con altri 22 piloti per seguire il corso di pilotaggio sull'Airbus 320". Salem Alhazmi, "suicida" sul volo 77, "ha 26 anni ed è appena tornato al lavoro in un complesso petrolchimico nella città industriale saudita di Yanbu. Quando gli attentatori hanno colpito era in vacanza in Arabia Saudita", dice il Telegraph.

Ahmed Alnami era o no sul volo 93? "Sono ancora vivo come vedete", dichiara al Telegraph: "Sono allarmato di vedere il mio nome nella lista del Dipartimento della Giustizia americano". Giudica "molto preoccu­pante" che la sua identità gli sia stata "rubata" e divulgata dall'FBI "sen­za alcun controllo". Non gli si può dar torto. La prestigiosa polizia fede­rale ha commesso una quantità di errori, quasi non avesse fatto verifiche sulla lista dei nomi. Quasi avesse preso ciecamente per buona una lista fornitagli da qualche altro servizio.

Ma non basta. Aamir Bikhari, un altro terrorista suicida, "è morto in un incidente con un piccolo aereo l'anno scorso", scopre la CNN. Adnan Bukhari, un altro suicida, "è ancora in Florida" vivo, sempre secondo la CNN. Amer Kamfar, un altro nella lista dell'FBI, "è invece vivo e fa' il pilota in Arabia", secondo il giornale arabo Wal Fadjri (21 settembre 2001).


 

Alla fine, l'FBI dovrà ammettere che l'identità dei terroristi suicidi non è accertata nemmeno in un caso. Che quella lista di nomi non prova né dice nulla, che le identità date per certe non corrispondono a persone reali. I terroristi possono aver agito sotto documenti falsi, è la facile ipo­tesi. In realtà, non è più certo nemmeno che ci fossero dei dirottatori su quegli aerei. Tutte le carte sembrano confuse, ad arte o per incapacità investigativa. Per esempio, sul volo 11, la lista ufficiale ha dato presen­ti 92 persone fra passeggeri ed equipaggio. Ma poi altre liste ne segna­lano 87.

È appunto questa ambiguità, questa nebbia, a giustificare le tesi complot­tiate che pullulano su internet: chi erano i dirottatori a bordo dei quattro aerei? E poi, c'erano dei dirottatori? Allo stato delle lacunose conoscen­ze attuali, si può credere che gli attentati siano stati compiuti attraverso un sofisticato apparato di telecomando, con la tecnologia Global Hawk in possesso delle forze aeree americane? Che si sia trattato di una opera­zione `false flag"?

"False flag", bandiera falsa, è, nel gergo delle spie, il nome di quelle ope­razioni, in cui i servizi segreti di un paese commettono attentati usando identità e coperture di altri paesi, in modo da farne ricadere la colpa su questi. Che il Mossad sia specialista in "false flag operations" è stato ri­conosciuto da uno studio militare americano. Uno studio sensazionale. Preparato nel 2001 dalla Army's School oJ Advanced Military Studies di Forth Leavenworth (Kansas), un'alta scuo­la che addestra truppe di elite. Lo studio, 68 pagine stilate da 60 ufficiali, fu elaborato come preparazione di un piano per l'eventuale interposizio­ne di truppe americane "di pace" fra israeliani e palestinesi in Terra San­ta: studio commissionato dall'Amministrazione Bush quando, evidente­mente, credeva ancora al processo di pace e non considerava Arafat come un altro Bin Laden. Ebbene: questo studio indicava che il pericolo mag­giore per le vite dei soldati americani - il rapporto consigliava di spie­garne almeno 20 mila - sarebbe venuto dagli israeliani, non dai palesti­nesi. Le forze armate israeliane vi vengono indicate così: "ben armate e addestrate. Note per compiere le loro missioni anche in spregio alle leg­-


 

 

gi internazionali". Quanto al Mossad, lo studio avvertiva: "ha la capaci­tà di colpire forze americane e far apparire ciò come azione arabo-pale­stinese" '.

False bandiere. Silenzi ambigui. E bugie.

L' intera vicenda dell'attacco al World Trade Center ne è letteralmente in­festata.

Così, la storia triste e commovente delle telefonate che diversi passegge­ri hanno fatto - o avrebbero fatto - a familiari dagli aerei che volavano verso la distruzione. Una di queste telefonate venne - o si è affermato che venne - da un personaggio eccellente: Barbara Olson, nota commenta­trice per la CNN. Barbara era sul volo 77, che si schiantò sul Pentagono. Telefonò - così si è detto - a suo marito, altro personaggio eccellente: Ted Olson, solicitor generai degli Stati Uniti. Il vedovo ha raccontato al Tele­graph il 23 marzo 2002: "Barbara ebbe difficoltà ad avere la linea, per­ché non usava il suo telefono cellulare ma quello sul sedile del passeg­gero. Non aveva la borsetta con sé, perché chiamava a carico del desti­natario (collect call) e ha chiamato attraverso il centralino del Diparti­mento della Giustizia, il che non è mai facile".

Il punto è che i telefoni di bordo a disposizione dei passeggeri sull'Ame­rican Airlines non possono fare chiamate a carico del destinatario. Per telefonare, bisogna anzitutto attivarli inserendovi una carta di credito (e già l'attivazione costa un addebito di 2,50 dollari, più altri 2,50 ogni mi­nuto di conversazione). Ora, per ammissione del vedovo, Barbara non aveva con sé la carta di credito. Come ha fatto? E si è davvero sicuri che abbia telefonato lei?

' Washington Times, Army Suggests US force of 20,000", di Rowan Scarborough, 5 apri­le 2002. È stato avanzato il sospetto che anche l'attentato attribuito ad Al-Qaeda contro il dragamine USS Cole nel porto di Aden, compiuto nel '99, sia una ' Tolse flag opera­tion". Secondo la versione ufficiale, sarebbe stato un gommone carico di tritolo, guidato da due "terroristi suicidi", a squarciare la fiancata della nave americana, uccidendo sei membri dell'equipaggio. Ma per motivi balistici è escluso che un gommone, per quanto esplosivo porti, basti a provocare su una nave corazzata uno squarcio di quattro metri. L'ipotesi avanzata è che la USS Cole sia stata colpita da un piccolo missile aria-terra "Popeye 2", guidato da una telecamera situata nel naso del missile stesso. Il "Popeye" è in dotazione al Nord Corea, alla Turchia e ad Israele.


 

Anche di un altro defunto s'è detto che ha telefonato dal volo 93. Ted Bea­mer, con uno dei telefoni di bordo per i passeggeri, ha fatto una chiamata di ben tredici minuti. Così ha affermato sua moglie, Lisa Beamer. Ma non è stata lei a ricevere direttamente la telefonata. A quanto risulta da tutti i resoconti, Ted il morituro parlò per 13 minuti con una operatrice della GTE (la compagnia telefonica) di nome Lisa D. Jefferson, e raccontò che i passeggeri con lui erano decisi a fare qualcosa per fermare i terroristi. La moglie, la vedova, ha solo ricevuto una chiamata dell'operatore che le ha "detto" dell'estrema telefonata del marito. E a Lisa D. Jefferson è stato vietato di raccontare ai giornalisti quel che è accaduto davvero.

Ci abbiamo creduto a quei valorosi passeggeri che sull'orlo della morte hanno lottato coi dirottatori. Ci siamo commossi. Possiamo ripeterlo con le parole del britannico Independent z: "tutti noi conosciamo la commo­vente storia del volo 93. Degli eroici passeggeri che hanno obbligato l'ae­reo dirottato a schiantarsi al suolo, sacrificando le proprio vite per sal­varne altre. Il solo problema è: forse, semplicemente, non è vero".

Il giornale britannico ha condotto una propria inchiesta sulla fonte del racconto eroico. Ed ha scoperto che il New York Times è stato il primo - il 22 settembre 2001 - a fornire una sommaria indicazione, citando non specificate `fonti ufficiali", secondo cui "sembra" che sul volo 93 "sia avvenuto un conflitto caotico che apparentemente ha portato allo schian­to dell'aereo". Quanto al racconto vero e proprio, ricco di particolari sui coraggiosi passeggeri che si sarebbero avventati sui dirottatori, esso è apparso su Vanity Fair, la rivista dei pettegolezzi di Hollywood. "Ciò sarà ricordato come una delle più grandi storie di eroismo mai raccontate", proclama Vanity Fair. Due mesi dopo, la storia viene ripresa da Newsweek, commenta l' Independent, "con particolari ancor più hollywo­odiani": vi si parla di "cittadini soldati ... insorti, come i loro antenati, a sfidare la tirannia ...Nell'osare e nel morire, i passeggeri e l'equipaggio del volo 93 hanno conquistato una vittoria per tutti noi".

z The Independent, Unanswered questions: the mistery of flight 93, 13 agosto 2002.

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Nessun'altra fonte più seria. Nessuna trascrizione legalmente autentificata dei dialoghi fra la torre di controllo e l'equipaggio è mai stata pubblica­ta. Nessuna inchiesta della magistratura è in corso per accertare i fatti. Che sono quasi certamente falsi.

Sono proprio falsificazioni così rozze, giudica The Independent, ad ali­mentare le voci complottiste secondo cui sarebbero stati "gli ebrei" o "la Cia" a pianificare e attuare i dirottamenti e le stragi. Indagini serie sono tanto più necessarie per ridurre queste voci velenose.

Invece, accade il contrario, come ha scoperto il giornalista indipendente Tom Fiocco 3. La sua indagine è stata condotta tra le centinaia di familia­ri delle vittime dell' 11 settembre, i quali hanno aperto innumerevoli cau­se penali e civili per appurare le responsabilità dei fatti, onde sapere a chi chiedere eventuali risarcimenti. A questo scopo, gli avvocati delle fami­glie hanno chiesto l'audizione di testimoni, l'assunzione di documenti e trascrizioni (per esempio fra gli aerei e le torri di controllo), insomma tutti gli elementi di prova per condurre la causa. Ebbene: almeno uno dei giu­dici davanti a cui le cause sono state portate - il giudice distrettuale Al­vin Hellerstein di New York - è stato "avvertito" dal Ministero della Giu­stizia che detto Ministero "Interverrà per controllare l'accesso ad ogni elemento di prova e documentazione riguardanti gli atti terroristici dell'U settembre", con la scusa dei "gravi

   motivi di interesse naziona­le". "Ogni scoperta investigativa di parte e non di parte" dovrà, prima di essere discussa in aula, essere "sottoposta alla Transportation Security Administration", così che l'ente "possa rivedere questo materiale e de­purarlo di informazioni sensibili per la sicurezza".

In parole semplici, il ministero della Giustizia sta cercando di `filtrare" prove e indizi, per sottrarle alla conoscenza del pubblico. "La Casa Bian­ca sta cercando di controllare o bloccare le prove di cui abbiamo biso­gno per dimostrare in aula casi di negligenza", come ha detto un anoni­mo avvocato delle famiglie a Tom Fiocco.

' Tom Fiocco, "Justice Department To Attempt Shut Down of 9711 Evidence Friday", Scoop Media, 11 luglio 2002.


 

Di più. Diversi testimoni che hanno già ricevuto l'atto di citazione pei testimoniare in aula (si tratta soprattutto degli addetti alle torri di controllo in quelle ore) sono stati "avvicinati" da funzionari "dell'Amministrazione Bush e della Transportation Security Administration" ed avvertiti che "prima di cooperare con le famiglie" è loro dovere "lasciarsi ispeziona re dalla Transportation Security". Tentativo evidente di subornare i testimoni e controllare le loro testimonianze prima dei processi.

Non basta. Le famiglie delle vittime sono state anch'esse avvicinate d, funzionari, i quali cercano di convincerle ad abbandonare le cause e ad accontentarsi invece del risarcimento rapido e sommario fornito dalle speciale "Fondo di compensazione per le vittime dell' 11 Settembre" isti­tuito in fretta dal Congresso. E benché solo 10 famiglie su 3200 abbiano per ora ceduto, i tentativi continuano. La Casa Bianca sta lottando perché la verità non emerga. Dev'essere que­sta la "giustizia" secondo le "leggi di Noè", di cui i miserabili goym do­vranno accontentarsi nell'imminente "Regno" di Israele.

 

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Capitolo 13
IL LINCIAGGIO DI CYNTHIA

L'opposizione delle due Camere americane è informata di questi parti­colari sospetti e dubbi, e anche di molti di più. Ogni senatore e rappre­sentante del partito democratico - la minoranza - sta ricevendo valanghe di e-mail con tutte le informazioni necessarie per capire che qualcosa di supremamente ambiguo, e pericoloso per la democrazia, è avvenuto dall' 11 settembre in poi.

Ma l'opposizione, patriotticamente, tace. C'è stata finora una sola ecce­zione.

S'introduce qui la figura coraggiosa di Cynthia McKinney, eletta alla Camera dei Rappresentanti per la quarta circoscrizione della Georgia. Democratica, donna, nera. Il 25 marzo 2002, Cynthia viene intervistata in una trasmissione radiofonica, "Flashpoint", condotta dal giornalista David Bernstein e diffusa a Berkeley, California. Lì, la donna chiede "una seria inchiesta" su quel che veramente è accaduto 1' 1 l settembre, e su quello che l'Amministrazione Bush sapeva prima degli eventi che si pre­paravano. Esprime alcuni dubbi, formula alcuni esempi - cose che il let­tore di queste righe conosce già.

Essa ricorda che vari governi stranieri avevano avvertito i più alti livelli dell'amministrazione di un attacco in preparazione, ed erano stati igno­rati.

Evoca la misteriosa speculazione finanziaria al ribasso sulle azioni delle due linee aeree coinvolte nell'attacco, condotta prima dell' 11 settembre da qualcuno che evidentemente sapeva quel che sarebbe accaduto.

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Chiama in questione i rapporti fra il regime dei talebani e la compagnia petrolifera americana Unocal.

Ricorda che dopo la tragedia, il presidente Bush e il vicepresidente Che­ney hanno chiesto che 1'ìndagine parlamentare sui fatti non fosse "né troppo lunga né troppo intensa".

Accenna ai grassi profitti che persone vicine all'Amministrazione faranno grazie al colossale aumento delle spese per la difesa; non tacendo, a que­sto proposito, la posizione privilegiata del Gruppo Carlyle, in cui sono soci Bush padre e la famiglia saudita Bin Laden, e che è diventato in pochi anni un importante contractor con le maggiori imprese di tecnologie militari. Oltre due settimane dopo, il 12 aprile, sul Washington Post esce un articolo che attacca con violenza Cynthia McKinney. 11 titolo, "Un democratico al­lude a un complotto del governo sull'11 settembre"', non rende il tono ag­gressivo del testo. L'articolo riferisce il commento di Scott McLellan, uno dei portavoce di Bush: "il popolo americano conosce già i fatti, e disprez­za queste opinioni ridicole e senza fondamento". Il portavoce della Carly­le, Chris Ullmann, aggiunge il suo commento insultante.

Lo stesso giorno, 12 aprile, appare un articolo molto più violento sulla versione online della National Review, firmato da Jonah Goldberg, ebreo.II tono: a proposito della richiesta della McKinney di una seria indagine, Goldberg dice: "Non ho prove che la signora McKinney abbia ammazza­to dei bambini o dormito con l'intera squadra degli Atalanta Falcons". Le richieste della parlamentare sono il frutto di "allucinazioni paranoidi

di una complottista cripto-marxista che odia l'America".

Il 13 aprile, sull'Atlanta Journal - Constitution (il quotidiano letto nella circoscrizione della McKinney), il senatore democratico della Georgia, Zell Miller, definisce "pericolosa e irresponsabile" la richiesta della de­putata. Il senatore racconta di un presunto tentativo di Cynthia di "farsi baciare da Ari Fleischer" (il portavoce della Casa Bianca, devoto degli hassidici) e finisce con un'allusione al consumo di droga, sempre presun­to, della parlamentare.

' "Democrat Implies Sept 11 Administration Piot", a firma luliet Eilperin.


 

Lo stesso articolo dà voce a un politologo della Emory University, Merle Black, che sulle frasi della deputata dà questo giudizio: "Ciò rinforza, tra

le persone serie della sua circoscrizione, l'idea che si tratta di un rap­presentante molto incompetente, visto che ha scelto di spendere così il suo capitale politico".

In realtà, l'opinione delle "persone serie" dev'essere stata diversa, visto che Cynthia ha vinto una dopo l'altra cinque elezioni, con il 58 per cento dei voti come minimo. Ma la frase deve essere intesa come un "avverti­mento" mafioso: McKinney stia attenta, le "persone serie" stanno facen­do in modo che non venga votata mai più. L'operazione, al momento in cui scriviamo, è in corso. Il Wall Street Journal del 16 agosto 2002 ripor­ta una brevissima notizia (pagina A2): un'associazione di neri americani di Atlanta, la Black Entertainment and Telecom Association, sta facendo campagna a favore della McKinney. "Il gruppo lamenta che lo sfidante della McKinney è largamente finanziato dai ricchi bianchi e da uomini d'affari ebrei".

Sempre nello stesso articolo, viene citato il commento di Ari Fleischer:

"La deputata sta concorrendo per il primo premio della Grassy Knoll

Society": altra allusione al presunto uso di droghe ("erba", grass) da par­te della parlamentare. Evidentemente c'è un dossier al proposito, acces­sibile all'Amministrazione, che viene allusivamente agitato per minaccia­re uno scandalo contro la donna.

16 aprile: una fondazione culturale chiamata Southeastern Legal Foun­dation 2 diffonde un suo rapporto, in cui si afferma che "il 21 per cento

dei contributi elettorali ricevuti dalla McKinney proviene da individui o organizzazioni arabe o medio-orientali". In particolare, "l'American Muslim Council e il Council of on America-Islam Relations, che hanno

La Southeastern Legal Foundation è nata nel 1976, con una donazione del miliardario Richard Mellon Scaife, lo stesso che ha pagato parecchie indagini private sui vizietti ses­suali di Bill Clinton, e che finanzia alcuni "istituti strategici" di Richard Perle. Il vec­chio presidente della fondazione, tale Matthew Glavin, ha dovuto lasciare la carica nel 2000 perché scoperto a compiere atti osceni in pubblico in un'area frequentata da omo­sessuali. È stato condannato a un anno con la condizionale.

 

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legami o espresso appoggio ad organizzazioni terroristiche". Phil Kent, il presidente della fondazione, fornisce il suo punto di vista: "Se la pren­diamo in parola [la McKinney] nella sua pretesa infondata, il popolo americano ha diritto anche di sapere che le sue relazioni finanziarie sono pesantemente rappresentate da arabi connessi col terrorismo". La "noti­zia" viene immediatamente ripresa da vari giornali e siti conservatori. Il titolo, in genere, è: "La McKinney sostenuta da terroristi".

I1 17 aprile una editorialista molto nota, Kathleen Parker, in vari interventi radiofonici ridicolizza la deputata, parlando di un "premio McKinney, per gente troppo stupida per una carica pubblica". La Parker spiega che Cyn­thia "è nera, il che obbliga ognuno a darle credito, per non essere defini­to un razzista". Fa' dello spirito di bassissima lega: "una approfondita in­chiesta potrebbe rivelare che la McKinney si fa' di acido e vive con un odontotecnico transessuale sotto il ponte di Brooklyn".

Evidentemente, le prudenze e gli obblighi del "politicamente corretto", sacro in America, soffrono in questo caso un'eccezione. La Parker assi­cura che le reti tv arabe "hanno molto apprezzato" l'intervento della de­putata "negra". Nessuna di queste radio ovviamente "lascia trasparire che la McKinney è una terrorista, simpatizzante di terroristi o anche solo una socialista idrofoba che odia la scia stessa patria". È il linguaggio concui la Pravda denunciava ai tempi di Stalin le colpe di qualche nemico del popolo improvvisamente smascherato. In Urss, questo tipo di cam­pagne giornalistiche preludeva immancabilmente alle ulteriori iniziative del partito: dalla emarginazione sociale del traditore fino al suo proces­

so-farsa. Ma cose simili non possono accadere in Usa.

Invece accadono. Il 22 aprile, la Southern Legai Foundation avanza uffi­ciale richiesta al leader della minoranza alla Camera, il democratico Ri­chard Gephardt, chiedendo la rimozione della McKinney dalle due com­missioni cui partecipa, visto che è finanziata da arabi. La stessa richiesta viene avanzata lo stesso giorno, e con le stesse motivazioni, dall'African­Ainerican Republican Leadership Council: questo gruppo chiede nello stesso tempo che la deputata sia espulsa dal Congressional Black Cau­cus, il gruppo "nero" parlamentare di cui la McKinney fa parte.


 

Lo stesso 22 aprile Human Events, una rivista conservatrice, pubblica un articolo intitolato "I federali perquisiscono gli uffici di sette donatori della McKinney"'. L'articolo si dilunga sui particolari: dei perquisiti vengono elencati nomi e cognomi (sono nomi musulmani), quanti dollari ciascu­no ha dato alla campagna elettorale della deputata, le date dei mandati di perquisizione, il nome del giudice che li ha firmati. Alla fine l'articolista, David Freddoso, deve ammettere: "a nessuno dei contributori della

McKinney è stato contestato alcun reato".

È stato dunque un atto giudiziario a mero scopo intimidatorio, per gene­rare sui giornali titoli diffamatori (in Italia la magistratura ci ha abituato a questo genere di cose), nel quadro di una vasta e concertata campagna per screditare e demonizzare una rappresentante eletta. Va notato che - esistendo in Usa anche una assai meno influente "lobby araba" - anche il Partito Repubblicano ha ricevuto e accettato donazioni da cittadini di fede musulmana. Uno di questi gruppi, il Safa Trust, è nel­la lista dei sospetti di terrorismo: avrebbe finanziato persone coinvolte nel terrorismo islamico e, insieme, i repubblicani Usa. Uno dei donatori del­la McKinney, Abduhraman Alamoudi, fondatore di un American Muslim Council, ha versato denaro anche per la campagna di Bush nel 2000: do­natore generoso (si parla di 20 mila dollari), tanto che il presidente Bush ha invitato Alamoudi alla giornata di preghiera del 14 settembre per le vittime degli attacchi al World Trade Center e al Pentagono. Fatto sta che il linciaggio mediatico della McKinney continua per circa due settimane; non mancano di parteciparvi giganti come CNN, Fox News, la MSNBC, che dipingono diffusamente la deputata come pro­irakena, complottista paranoide, irresponsabile e pericolosa. Poi però il clamore si spegne. Molto probabilmente, perché i media sono inondati da e-mail e telefonate di sostegno a Cynthia, o che reclamano come lei una seria inchiesta che illumini i troppi punti oscuri. Alcuni sondaggi pro o contro la McKInney, lanciati con clamore dalle tv, spariscono nel nulla

' "Feds searched offices of seven McKinney donors".

 

 


 

dopo poche ore: pare che i voti pro-McKinney sfiorino il 50 per cento. Dopotutto, certe cose non riescono bene in America.

Accadono, accadono. E riescono. Nell'agosto 2002, Cynthia McKinney ha perso le elezioni primarie nel quarto distretto del suo stato, dove le ave­va vinte per dieci anni consecutivi. Le primarie sono in qualche modo ele­zioni di partito: quelle in cui è stata sconfitta Cynthia erano del Partito Democratico. Ma, come ha raccontato l'Atlanta Journal-Constitution, "uno sciame di simpatizzanti repubblicani" si sono presentati a mettere il loro voto nell'urna. Il giornale intervista ad esempio "Bill Dillon, 67 anni, di Chamblee, che si definisce "repubblicano da 50 anni", ma ha vo­tato nelle primarie democratiche. "Voterei mille volte contro [la McKin­ney]". Cynthia ha dichiarato che i pezzi grossi del partito, da Washington, le hanno fatto mancare ogni appoggio.

Il papà di Cynthia, Billy McKinney, è anche lui un rappresentante demo­cratico nella Camera dello Stato. Una tv locale gli ha chiesto di spiegare le ragioni per la sconfitta di sua figlia. Billy ha risposto: "ve ne dirò quat­tro: J-E-W-S", ha compitato I. Anche questo succede in America: gli spor­chi negri sono antisemiti. Razzisti.

Atlanta Journal-Constitution, 21 agosto 2002: "Outspoken Democrat McKinney ousted after 10 years in Congress", di Jim Galloway.


 

Capitolo 14
LA LOBBY AL LAVORO

Il trattamento subìto dalla McKinney basta a spiegare l'unità corale e sen­za smagliature con cui il Congresso, invariabilmente, fa proprie le posi­zioni più estremiste in Israele, senza distinzione alcuna fra democratici e repubblicani? O basta ad ottenere questi risultati l'opera di persuasione del rabbino Shemtov ?

Il 2 maggio 2002, per esempio, il Senato americano con 94 voti contro 2, e la Camera dei Rappresentanti con 352 contro 21, hanno votato l'incondi­zionato appoggio degli Stati Uniti alle feroci azioni militari israeliane in corso contro il palestinesi. Il voto è stato così schiacciante che persino il governo Bush, secondo a nessuno quanto a filo-ebraismo, ha chiesto alle camere di attenuarne il significato per lasciare un minimo spazio alle trat­tative di pace in corso. La richiesta del governo in questo senso, però, è stata respinta dagli zelanti senatori e deputati a larga maggioranza. Anzi i sena­tori, dal rabbinico Boe Lieberman al noachico Tom DeLay, fecero a gara nel cantare le lodi di Sharon e nel demonizzare Arafat, il "terrorista". Uno dei pochi coraggiosi dissidenti, il senatore Ernest Hollings del Sou­th Carolina, ha spiegato al New York Times i motivi di tanto zelo filo­giu-daico: "molti senatori sono a caccia di contributi elettorali"'. Infatti. Non sempre occorre il bastone per guidare il gregge dei goym sog­getti alle leggi noachiche. Per lo più basta la carota: denari, donazioni, contribuzioni così necessarie per costruire le carriere politiche america­

Citato da Michael Massing, The Israeli lobby, su The Nation, 10 giugno 2002.

 


 

ne. Lo stesso New York Times sorvola sulla notazione del senatore,Hol­lings, essendo il fatto insieme noto, e accanitamente taciuto. La lobby ebraica è una vasta rete di gruppi di pressione e fondazioni politi­co-culturali; diversi nomi di queste entità punteggiano i capitoli preceden­ti. La più nota - la Anti-Defamation League (ADL) - è un buon esempio della multiforme azione che questi gruppi esercitano sull'opinione pubbli­ca, con l'influenza o l'intimidazione. Nata nel 1913 dalla società segreta B'nai B'rith ("Figli del taglio": allusione alla circoncisione), branca della massoneria riservata ai giudei, la ADL si costituì all'inizio per contrastare - organizzando proteste - gli stereotipi anti-ebraici che comparivano sulla stampa e nel cinema. Ma da allora ha enormemente ampliato le sue attivi­tà, che spaziano dall'organizzazione di corsi per agenti di polizia ("sensiti­vity training", addestramento alla sensibilità politicamente corretta) alla dif­fusione nelle scuole di "materiali per insegnanti" e "libri educativi" (che sono poi testi di propaganda filo-israeliana), alla fornitura di "notizie" ad hoc ai media. Ma non basta. Nell'aprile del 1993 la polizia di San Franci­sco e Los Angeles, fornita di mandato, perquisì a sorpresa gli uffici della ADL, e scoprì che l'organizzazione aveva schedato (illegalmente) 12 mila individui e 950 gruppi politici o ideologici: dal Ku Klux Klan a Greenpea­ce, dal sindacato dei contadini United Farm Workers al gruppo nero Natio­nal Association for Advancement of Colored People, a vario titolo ritenuti ostili alla causa giudaica. Di un solo gruppo, l' Arab-American Anti-Discri­mination Committee (l'omologo arabo della ADL), erano stati schedati 4550 membri o simpatizzanti. Per lo più, scoprirono gli agenti, le scheda­ture contenevano dati personali ottenuti in modo illegale da fonti riservate dello stato e della polizia, in genere per corruzione dei funzionari. In molti casi, erano frutto di infiltrazioni di "agenti" ebraici nelle organizzazioni sotto osservazione; una vera e propria rete di spionaggio interno, stile Kgb vecchia maniera, che si estendeva a ben sette città e metropoli americane. Uno degli "infiltrati" per conto dell'ADL era Tom Gerard, un ex agente della Cia. Sfuggì in fretta all'interrogatorio dello Fbi riparando nelle Filip­pine. Ma in una sua valigetta ventiquattrore fu trovato materiale allarman­te: almeno dieci fra passaporti, patenti di guida e carte d'identità rilasciate


 

ad altrettanti nomi diversi. Certificati di nascita in bianco. Carta intestata di diverse agenzie statali. E, più inquietante, come si legge nel rapporto di polizia, "un cappuccio nero evidentemente usato in interrogatori, e foto di uomini bendati e ammanettati". Quali genere di attività si consumano nei sotterranei dell'ADL? Nell'insieme, già ogni schedatura - spiegò allora la polizia di Los Angeles - costituiva in sé un grave reato. Non ci sorprende­rà sapere che dei 12000 reati la ADL non ha dovuto rispondere mai, e che tutta la losca faccenda è stata insabbiata. Ma è uno dei pochi casi in cui la stampa nazionale parlò abbastanza apertamente dell'attività della "lobby".

Ma in senso tecnico, quando a Washington si parla (il meno possibile) della lobby pro-israeliana, il riferimento è all'AIPAC, American Israeli Public Affairs Committee. "Il gruppo d'interesse meglio finanziato d'America", lo ha definito il Wall Street Journal. "La lobby più potente nell'influenzare la politica estera", secondo The Nation'. L'organo che crea e distrugge le fortune dei candidati politici. Come spiega la Jewish Virtual Library, l'Aipac controlla il voto in Ame­rica in modo decisivo. "Benché gli ebrei in Usa siano solo sei milioni, il 2,3% della popolazione totale, circa l'89% di essi abita in dodici collegi elettorali di stati decisivi per le elezioni. Questi stati da soli "valgono" abbastanza voti elettorali da poter eleggere il Presidente". Ne deriva che "prendere posizioni anti-israeliane non comporta alcun beneficio per un candidato"; ma anzi "costa considerevolmente in perdite di voti e di con­tribuzioni alle campagne".

L'AIPAC dichiara 60 mila soci-donatori, al 90% ebrei; il 10 per cento re­stante è composto di protestanti millenaristi, miliardari, che contano di "accelerare i tempi ultimi" favorendo l'occupazione di Israele sulla terra santa z. L'AIPAC pubblica dal 1977 una lista continuamente aggiornata di personalità e associazioni americane catalogate come "anti-israeliane" e perciò "antisemite" tout court: ad aggiornare la lista di proscrizione contribuiscono, volontariamente e con entusiasmo, tutte le altre associa­

Su quest'ala del fondamentalismo protestante americano, si veda il mio "I fanatici dell’Apocalisse", Rimini, 2002, pag. 125 ("Protestanti per Sion").

 

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 zioni giudaiche. Questo è il bastone. Ma la carota conta ancora di più: l'AIPAC "inonda di milioni di dollari centinaia di membri del Congres­so su entrambi gli schieramenti", precisa Massing, in proporzione al filo­ebraismo di ciascuno. "Inoltre, controlla una rete di cittadini ricchi e in­fluenti in tutto il paese, che mobilita regolarmente a sostegno del suo sco­po strategico: assicurare che non ci sia divaricazione fra le politiche di Israele e quelle degli Stati Uniti".

Nell'aprile del 2002, all'annuale conferenza dell'AIPAC hanno parteci­pato un senatore su due, novanta parlamentari, tredici membri del gover­no Bush, tutti in gara di servilismo: a vincere il premio è stato Andrew Card, capo dello staff della Casa Bianca, che s'è provato a dichiarare in ebraico: "viva il popolo d'Israele", strappando un'ovazione. In quella riu­nione, ha scritto il Washington Post, l'AIPAC ha avuto modo di mostrare

"tutta l'estensione del suo potere convocando alla tribuna centinaia di dignitari, con applausi per ciascuno". Bill Clinton, per non essere da meno, ha dichiarato "per la sopravvivenza d'Israele sono pronto a pren­dere il fucile e morire". Lui che è sfuggito alla leva per il Vietnam.

Tristi spettacoli nella democrazia americana. Che meriterebbero, com­menta il giornalista Michael Massing, un'attenzione più critica della stampa. Invece nulla. Un silenzio intimorito circonda quello che la colta

rivista The Criterion ha definito "Il terzo partito americano", "un terzo partito fantasma che domina il discorso politico"'. Al punto che certi or­gani della lobby "che esercitano un'influenza enorme a Washington",

sono praticamente ignoti al pubblico. Come la Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations di New York: che riunisce 52 organizzazioni ebraiche, tutte allineate dietro il suo presidente esecutivo, tale Malcolm Hoenlein, di cui sono noti gli stretti collegamenti con il Likud, il partito neofascista 1 al potere in Israele. Hoenlein è un noto rac­

' "The Israeli lobby is America's third party", The Criterion, 9 agosto 2002.

' l1 padre dei Likud fu Vladimir Jabotinsky (1880-1940), promotore di un sionismo ar­mato e razzista e di uno stato "autoritario". Jabotinsky simpatizzò per Mussolini, al punto da inviare i suoi militanti in Italia per essere addestrati alle armi.


 

coglitore di fondi per mantenere gli insediamenti illegali, le "colonie" di fanatici ebraici sparse nei "territori occupati", che lui ovviamente chia­ma "Giudea e Samaria" per rivendicarne il possesso al giudaismo. Il per­sonaggio, ignoto all'americano medio, ha tutte le porte aperte al Penta­gono, al Dipartimento di Stato e al Consiglio di Sicurezza Nazionale: non a caso la rivista dell'ebraismo chic, Forward, nella graduatoria che pub­blica ogni anno dei "cinquanta ebrei più importanti in America", gli tri­buta il primo posto. Secondo Massing, è stato Hoenlein e la sua Confe­rence of Presidents ad operare perché l'amministrazione Bush non faces­se troppo forti pressioni su Sharon nella sua brutale repressione contro i palestinesi. Eppure, nessuno lo sa in Usa. Perché questo silenzio?, si domanda Massing. E rivela che "scrivere su

questi gruppi di pressione non è affatto facile per i giornalisti. Il potere dell'Aipac rende le persone che possono essere fonti di notizie assai ri­luttanti a parlare. E i dipendenti dell'Aipac che lasciano l'organizzazio­ne devono firmare un impegno al segreto". Inoltre, va tenuto conto che l i

stessa espressione "lobby ebraica" è un tabù. I giornalisti non la scrivo­no nemmeno, per non essere bollati come antisemiti, che nei media equi­vale alla morte professionale.

"Ma il vero ostacolo a indagini giornalistiche su questi gruppi è, in ulti

ma analisi, la paura", dice Massing. Gli ebrei tempestano i giornali e media di proteste feroci, ogni volta che credono di scoprire, nei reportages dal Medio Oriente, un "pregiudizio antisemita". Gli ebrei importanti telefonano la loro protesta direttamente ai direttori dei giornali, o agi editori. Le organizzazioni giudaiche della lobby organizzano dei veri i propri boicottaggi: per i suoi servizi considerati filo-palestinesi, il Lo, Angeles Times s'è visto annullare oltre mille abbonamenti; decine di giornali (fra cui l'al 1ineatissimo Washington Post) hanno subito tagli punitivi di inserzioni pubblicitarie, boicottaggi di lettori e così via. La CNN s' vista annullare contratti pubblicitari per milioni di dollari. Quest'attività intimidatoria, sempre attiva, è divenuta parossistica, incessante, minuziosissima dopo VI 1 settembre. I pochi giornali, dopo il tragico attacco terroristico, hanno notato un particolare interessante: il con-

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trollo-sicurezza dei passeggeri dagli aeroporti da cui sono partiti gli ae­rei del terrore è appaltato alla ICTS, ditta di cui è proprietario un Ezra Heretz, israeliano con sede in Olanda, che impiega per quel lavoro ex agenti dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano (e lo stesso ICTS ha il controllo dell'aeroporto Charles De Gaulle a Parigi). Quei pochi gior­nali hanno dovuto pentirsene amaramente, tanto la reazione dei lettori ebraici è stata feroce e punitiva. Così, la notizia non ha avuto seguito; nessuna indagine ulteriore è stata condotta sullo strano caso.

Nessun giornale americano ha cercato di appurare la verità della voce - ripresa dal giornale giordano al-Watan - secondo cui, quel giorno, quat­tromila ebrei che di norma lavorano al World Trade Center erano rimasti a casa. Eppure la notizia meritava una certa attenzione giornalistica. Non risulta che nella strage sia scomparso nessun ebreo, benché gli uffici del WTC, per lo più di ditte finanziarie e banche d'affari, siano affollati di personale ebraico. Ed è certo per esempio che la ZIM, una grossa ditta di trasporti israeliana con sede nel World Trade Center, ha traslocato un mese prima dell'attacco: per una nuova sede più economica, è stata la spiegazione ufficiale. Ma il contratto d'affitto della ZIM nei locali del WTC era valido fino a dicembre, già pagato (50 mila dollari, si dice) fino a Capodanno: perché quel trasloco anticipato? Non vi aspettate risposte dai media americani. "Se io scrivessi qualcosa

stigli interessi geopolitici di Israele in Usa, tanto varrebbe che svuotassi

la scrivania"; ha confessato il redattore di una tv a Mark Schneider, un attivista pacifista che, di ritorno dalla Palestina, offriva un'intervista sul­la repressione israeliana 5. O, come ha detto a Michael Massing un ano­nimo reporter del New York Times, "l'intimidazione operata da questi gruppi è molto efficace, i direttori non vogliono grane e non toccano più certi argomenti".

' Schneider ha raccontato la sua allucinante esperienza - non è riuscito a divulgare quel

che ha visto nei "territori" - su Palestine Chronicle del 19 marzo 2002 ("Anterican Me­dia Cemsorship and Israel: please get the word out").


 

Capitolo 15
LA CUPOLA DELLE CUPOLE

 

"L'individuo sarà sempre in svantaggio quando scoprirà un complotto così mostruoso, da non poter credere alla sua esistenza" (J. Edgar Hoover, leggendario capo dell'Fbi).

Ma se qualcuno ci chiedesse di indicare, fra la miriade di gruppi di pres­sione e d'influenza, fondazioni, associazioni, il vero centro del potere supremo della lobby, allora vi dovremo parlare di una entità ulteriore: sovraordinata ai pullulanti gruppi d'opinione rivolti al pubblico, ai poli­tici o ai media, e profondamente interna al potere militare americano. La storia è quasi antica. Comincia quasi trent'anni orsono, quando un gruppo di importanti personaggi , ultraconservatori, costituirono - per imporre le loro visioni al governo statunitense - la loro propria lobby. Si chiamava Committee on the Present Danger: nome in sé rivelatore. La filosofia del gruppo era fondata su una convinzione a bella posta esage­rata: che l'Unione Sovietica stesse per superare militarmente l'America. Per conseguenza, l'America doveva immediatamente aumentare i suoi bilanci militari già enormi, abbandonare qualsiasi trattativa per il control­lo degli armamenti ("trucchi di Mosca per disarmarci") e, infine, soste­nere ed armare sempre più Israele. Presieduto da due ex-segretari al Te­soro, Henry Fowler e Douglas Dillon, il Committee on Present Danger (CPD) era affollato - non sorprenderà - di nomi ebraici di livello, pro­fondamente inseriti nei processi decisionali americani, a modo loro degli "alti intellettuali bellici", esercitati nel pensiero strategico. Stupirà ancor meno apprendere che - se pure membri taluni del partito democratico Usa, come Max Kampelman e Lane Kirkland (del sindacato AFL-CIO) come ebrei erano tutti vicini all'israeliano Likud, l'estrema destra mili­tarista, folta di generali. Quando nacque, sotto la presidenza Carter, il

 

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CPD era un gruppo privato e marginale. Ma con l'elezione di Ronald Reagan nel 1980 ha preso a migrare verso il centro del potere.

 

Durante la presidenza Clinton, il CPD ha rafforzato il suo peso come go­verno-ombra del potere militare, in parte stemperandosi in due nuovi or­ganismi. Uno si chiama Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA), e l'altro Center for Security Policy (CSP).

Il JINSA è stato fondato nel 1976 con il fine dichiarato di assicurare che gli Stati Uniti continuino a fornire adeguati armamenti ad Israele in tutte le future guerre contro gli arabi. Data la premessa, si scopre senza alcu­na meraviglia che il JINSA ha avuto come presidente Douglas Feith, e che Richard Perle figura nel suo comitato direttivo (board) insieme a John Bolton (oggi sottosegretario di Stato per il controllo degli armamenti), a Dick Cheney vicepresidente al fianco di Bush jr., a personalità dell'era Reagan come Jane Kirkpatrick e Phyl Kaminsky, giù giù fino all'ex di­rettore della Cia James Woolsey e a Michael Ledeen, sopravvissuto allo scandalo Iran-Contra che travolse il colonnello Oliver North (Ledeen era l'agente di collegamento di North con gli israeliani). Nel suo sito Internet, il JINSA dichiara come sua finalità "istruire il pub­blico americano sull'importanza di una efficace capacità di difesa così che siano salvaguardati i nostri interessi vitali americani", nonché "in­formare le personalità della difesa e degli affari esteri americani sul ruo­lo essenziale svolto da Israele nell'affermare gli interessi della democra­zia nel Mediterraneo e in Medio Oriente". A questo scopo, ogni estate il JINSA paga un viaggio d'istruzione in Israele a un folto gruppo di cadet­ti delle alte scuole militari americane, per incontrarvi, e fare amicizia con,alti ufficiali delle forze armate ebraiche; tiene "lezioni" nelle accademie militari americane delle tre armi; e paga viaggi in Israele a selezionati generali e ammiragli Usa in pensione per incontri ad alto livello con generali in servizio israeliani.

Vengono così educate all'amicizia eterna con Israele le future generazio­ni, nonché le passate, dei comandi militari statunitensi. I vecchi generali a riposo, tornati in patria, sono felici di scrivere commenti, volentieri


 

ospitati dai giornali, in senso filo-israeliano. All'inizio dell'Intifada, un gruppo di 26 pensionati di questo genere rilasciò una pubblica dichiara­zione che definiva la resistenza palestinese "una perversione dell'etica militare" e ricordava agli americani che "gli amici non abbandonano gli

amici in battaglia".

Ma questa propaganda spicciola, per quanto utile, non è lo scopo principa­le dei viaggi organizzati dallo JINSA. Mai sottovalutare, in Usa, i vecchi generali: quasi sempre, costoro fanno parte di consigli d'amministrazione, o sono consulenti, delle grandi industrie americane della difesa, cospicue beneficiarie dei contratti del Pentagono, generalmente colossali. Il punto è, come ha scritto Jason Vest', che il JINSA è l'ambiente "dove

ideologia e affari si mescolano fino a identificarsi". L'allarmismo guerra­fondaio, il superpatriottismo, l'orgogliosa promozione di una "pax ameri­cana" armata fino ai denti e la robusta posizione pro-Likud in Israele sono modi di pensare naturali per chi di mestiere vende sistemi d'arma, caccia e radar; tanto più in quanto le stesse fabbriche vendono, insieme, al Penta­gono e ad Israele. La psicologia da dottor Stranamore, in Usa, non è una mania ridicola, ma la mentalità vincente per un certo tipo di business. Così, ad esempio, l'ammiraglio a riposo David Jeremiah, che figura tra i consiglieri nel board della JINSA, è presidente e socio della Technology Strategies & Alliance Corporation, ditta che si propone come "consulen­te strategico e finanziario per industrie aerospaziali, difesa, telecomuni­cazioni ed elettroniche". Lo stesso Jeremiah siede nel consiglio direttivo della Alliant Technosystem, una fabbrica che - insieme alla israeliana TAAS - è nel business dei proiettili di gomma, assai lucroso dati i meto­di repressivi ebraici in Palestina. Ancora Jeremiah risulta fra i dirigenti della Litton, una sussidiaria del gigante Northrop Grumman: massimo contractor del Pentagono ma anche fornitore alla marina israeliana di

' Jason Vest è uno dei più grandi giornalisti americani, esperto di cose militari, cui la passione della verità non ha consentito di entrare nel pagatissimo empireo degli anchor­men. Scrive per il periodico The Nation, a cui dobbiamo quasi tutte le informazioni di questo capitolo. Cfr. Jason Vest, The men from JINSA and CSP, The Nation, 15 agosto 2002.

 

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navi, e all'aviazione israeliana dell'avionica dell'F-16 degli aerei E-2C Hawkeye, insieme con il radar Longbow che Israele usa nei suoi elicotteri d'attacco. Difatti la Grumman è il più avanzato produttore di quell'elettro­nica, che consente la teleguida di aerei senza pilota: chi per avventura non credesse che a dirottare i quattro aerei dell' 11 settembre è stato Bin Laden con i suoi fanatici suicidi, dovrebbe considerare la ditta come il primo fra i sospetti alternativi, dato il suo know-how unico nel settore aeronautico. La Northrop Grumman ha concepito e fabbricato il GlobalHawk, il più grande drone mai esistito, vasto come un aereo di linea e capace di de­collare, volare per migliaia di miglia, manovrare in cielo senza pilota, te­leguidato da terra da un simulatore di volo. Da tempo collabora con la Taamam, sussidiaria della Israeli Aircraft Industries, per sviluppare un drone adatto ai bisogni della "sola democrazia" del Medio Oriente. Scorriamo altri nomi di vecchi soldati a riposo che compaiono fra i mem­bri dello JINSA. L'ammiraglio Leon Edney? Il generale Charles May? Entrambi sono stati a libro paga della Grumman o di una sua filiale. Il generale a riposo Paul Cerjan? L'ammiraglio in pensione Carlisle Trost? Tutt'e due sono consulenti, a vario titolo, nelle sussidiarie del ricco ed ampio giardino della Lockheed Martin: la ditta che dal 1999 ha venduto ad Israele caccia F-16 per 2 miliardi di dollari (ovviamente non paga il cittadino ebreo, ma il contribuente Usa), oltre a simulatori di volo, siste­mi lanciarazzi multipli, siluri pesanti Seahawk. Trost ha avuto una pol­trona anche nel comitato direttivo della Generai Dynamics, la cui conso­ciata Gulfstream ha un contratto aperto con Israele, da 206 milioni di dol­lari, per costruire all"`umica democrazia" del Medio Oriente aerei da usa­re per "missioni elettroniche speciali". Anche Donald Rumsfeld, attuale ministro della Difesa, è stato nel board della Gulfstream. Bisognerebbe aggiungere, fra i simpatizzanti o membri del JINSA, i vecchi soldati che hanno creato la Military Professional Resources International, inedita ditta che fornisce mercenari, non di rado provenienti dal servizio nell'ar­

mata israeliana; o la SY Technologies, o la Cypress International (mainome fu meglio trovato), che lucrano nel luttuoso mestiere di mediatori d' armi, ed hanno in corso diversi progetti con Israele.


 

Ma basta così. Come si vede, fra le grandi industrie che si aggiudicano i contratti del Pentagono, una sola non appare ai vertici del Jewish Institu­te for National Security Affairs: la Boeing. Eppure la Boeing ha rapporti trentennali di costruzioni su licenza con la Israeli Aircraft Industries. Ven­de agli israeliani gli F-15 e, insieme alla Lockheed, gli elicotteri d'assal­to Apache, apparizione consueta nei cieli sui territori occupati. E infatti la Boeing c'è, nel ristretto club dei dottor Stranamore. Non nel­la JINSA, ma i suoi rappresentanti siedono nel Center for Security Poli­ce, CSP, il secondo rampollo dell'antico Committee on Present Danger. E poi, a guardare la lista dei membri, ogni differenza fra JINSA e CSP scompare. Nell'uno e nell'altro siedono i soliti: Richard Perle, Jane Ki­rkpatrick; Elliott Abrams, Paula Dobriansky, Sven Kraemer, Robert Jo­seph, Robert Andrews, e ovviamente Douglas Feith, oggi numero tre al Pentagono, che del CSP è stato presidente prima di diventare vicemini­stro. In realtà, almeno 22 membri direttivi del CSP sono oggi inseriti nel governo di Bush figlio.

Nel CSP, la Boeing è più che bene rappresentata: da Stanley Ebner, che è stato un altissimo dirigente della ditta aeronautica, da Andrew Ellis, che ne è vicepresidente, addetto ai rapporti con l'Amministrazione, da Carl Smith, oggi direttore della Commissione Forze Armate al Senato ameri­cano, che prima - da avvocato - aveva la Boeing come suo maggiore cliente. Non mancano i rappresentanti delle altre ditte che compongono il complesso militare-industriale Usa: Charles Kupperman, vice-presiden­te della Lockheed Martin per il settore missili strategici, Robert Living­ston che viene dalla Raytheon, John Lehman, già segretario alla Marina, che rappresenta la Ball Aerospace & Technologies, nonché George Keyworth, che viene dalla Hewlett-Packard (sistemi computerizzati per missili). Praticamente, nessuna industria resta fuori: tutto il potere tecno­logico e militare americano dei contrattisti per il Pentagono è concentra­to nel CSP.

I due trust dei cervelli hanno ovviamente i loro costi. Ma, come accade in America, non mancano i donatori generosissimi, incoraggiati dal fatto che le elargizioni alle "fondazioni senza scopo di lucro" sono detraibili

 


 

dalle tasse. JINSA e CSP sono largamente finanziati da Irving Mo­skowitz, magnate californiano del bingo, che mantiene di tasca sua (a milioni di dollari l'anno) anche parecchi insediamenti di "coloni religio­si" giudaici nei "territori occupati". Un altro donatore è Lawrence Ka­dish, banchiere d'affari di New York, finanziatore principe del Partito Re­pubblicano (532 mila dollari per la campagna di Bush jr.): famoso dopo l' I 1 settembre per avere stilato una sua lista dei "terroristi interni" che minacciano l'America: non meno di quelli esterni (Kadish ha messo in lista persino l'ex presidente Jimmy Carter). Un altro donatore eminente è Poju Zabludowicz: erede di un multiforme impero multinazionale che comprende la fabbrica d'armi israeliana Soltam (per la quale ha lavorato Perle, fra un incarico governativo e l'altro in Usa), e che ha creato e fi­nanziato il Britain-Israel Communication Research Center: fondazione londinese che bolla come antisemiti i giornalisti colpevoli di condurre re­portage dalla Palestina poco favorevoli alle azioni israeliane. Infine, an­drà segnalato tra i finanziatori Richard Mellon Scaife: miliardario, padro­ne di una rete di giornali, che ha pagato, si dice, 2,4 milioni di dollari per la sua campagna personale contro 13111 Clinton, finanziando le indagini sui rapporti fra il presidente e Monica Lewinski. Il CSP ha come anima e motore il suo vulcanico fondatore e presidente: Frank Gaffney. Stella dei falchi, amico intimo di Richard Perle (fu con lui al Pentagono negli anni '80), fanatico adoratore di Sharon, Gaffney è scrittore prolifico: sforna senza interruzione rapporti che indicano i ne­mici dell'America (nell'ordine: Irak, Cina, e poi tutti gli Stati sottosvi­luppati con qualche missile a lunga gittata), e quasi ogni settimana scrive un editoriale per il Washington Times.

Lì Gaffney illustra le sue prescrizioni per la sicurezza nazionale. Che sono chiare e semplici: l'America deve stracciare tutti i trattati per il con­trollo degli armamenti; finanziare ogni e qualunque mega-progetto di di­fesa missilistica, scudo stellare, sistemi d'arma sempre più avanzati e le­tali; e infine, deve non dare tregua ai Palestinesi. Nel 1995 Gaffney diede una mano a Feith a confezionare un memorandum del CSP contro il trat­tato ABM (la riduzione concertata dei missili balistici con l'Urss). E sem­-


 

pre dal CSP uscì il memorandum A Clean break: a new strategy for the realm (stilato da Perle e Feith) che nel '96 consigliava il premier israe­liano Netanyahu di dare "un taglio netto" (clean break) al processo di pace. Infiniti altri rapporti del CSP hanno osteggiato il "Trattato comples­sivo sul bando ai test nucleari" e la "Convezione contro le armi chimi­che"; dal CSP s'è organizzato il contrasto alla creazione di una Corte in­ternazionale per i crimini di guerra. Queste "idee", a loro tempo sottova­lutate o derise, oggi - dopo VI 1 settembre - sono il programma del go­verno Bush. L'influenza del gruppo è notevole: da marzo, gli uomini del­lo JINSA sono riusciti ad escludere da ogni tavolo, al Pentagono, arabi­sti celebri come gli ex agenti della CIA Milt Bearden e Frank Anderson, contrari all'invasione dell'Irak.

Così, è in questi due centri che è stata formulata la teoria secondo cui l'in­tifada palestinese "mette in pericolo l'esistenza stessa di Israele". È lì che il sionismo di destra, con venature neofasciste, si coniuga con le nuove dottrine militari a base di scudi stellari e difese missilistiche a oltranza, non più contro un nemico identificato, ma contro "il terrorismo" in ge­nerale: categoria in cui, come per caso, entrano tutti gli stati che Israele ritiene ostili. Lì è nata l'idea dì impegnare gli Stati Uniti nella difesa per­sino degli insediamenti illegali nei territori occupati. Dall' 11 settembre, perché è in questi due trust di cervelli che si è inventata la nuova corren­te, anzi il nuovo tipo umano di destra, chiamato "neoconservative" per­ché - al contrario del vecchio conservatorismo, è liberista, guerrafonda­io e indifferente ai temi della moralità individuale e familiare. I "neo­cons" non muovono un dito contro l'aborto; sono per la liberalizzazione delle droghe; ma si battono per l'unilateralismo in politica estera, e per la difesa di Israele.

Il neo-conservatorismo è un'invenzione, una moda, o meglio una meta­morfosi della comunità ebraica americana. Tramontato il tempo in cui gli ebrei erano "libera!", pacifisti di sinistra, radical-chic. Da quando in Isra­ele si succedono governi di destra, e "la sola democrazia medio-orienta­le" è in mano ai generali di carriera e al rabbinato fanatico, l'ebreo ame­ricano è diventato neo-conservatore.


 

 

Il processo s'identifica con l'altra parallela metamorfosi subita dalla co­munità giudaica: da ceto secolarizzato (e non di rado filo-marxista), a gru­mo di zeloti hassidici e messianici. Il neoconservatismo liberista, armato e patriottico è la facciata esterna , si è tentati di dire, per uso dei goym soggetti alle leggi di Noé.

E nello JINSA come nel CSP, è impossibile dire quanto le ciniche visio­ni "strategiche", la fredda aggressiva "strategia di potenza per il Medio Oriente", si nutrano di segrete speranze millenariste sul "Regno" vitto­rioso d'Israele, sulla convinzione che il popolo eletto stia per riscuotere il frutto dell' "antica alleanza", o meglio del "vecchio contratto" con JHVH. Ma quando Michael Ledeen, uno dei membri influenti del JIN­SA, predica non solo la guerra, ma "la guerra totale", è difficile sottrarsi alla sensazione che riecheggi le lezioni dei Lubavitcher.

Ad uso dei goym, la dottrina strategica cui Ledeen dà voce (confezionata però dalla JINSA) si chiama "cambio di regime" nei paesi petroliferi. Il che significa guerra all'Irak, ma non solo. Poi toccherà alla Siria, all'Iran, e ovviamente all'OLP (i palestinesi vanno espulsi da Israele). Secondo questa dottrina, l'interesse nazionale di Israele coincide con quello degli Usa; e il solo modo di rendere sicuri entrambi i paesi è l'uso illimitato della forza, e l'incessante perseguimento dell'assoluta superiorità milita­re su ogni possibile avversario.

Nell'agosto 2002, gli uomini dei due club hanno fatto notizia per aver te­nuto nelle stanze del Pentagono una giornata di studio, in cui un avventi­zio del gruppo, tale Laurent Murawiecz 2 ha proclamato la necessità di lanciare un ultimatum all'Arabia Saudita: un avversario in più. L'Arabia cessi di sostenere il terrorismo, o sarà privata con la forza dei suoi giaci­menti petroliferi. "1 sauditi sono attivi ad ogni livello della catena del ter­rore: ne sono i pianificatori e i finanziatori, i quadri e i fantaccini, gli ideologi e i sostenitori", ha detto Murawiecz. "L'Arabia Saudita sostie­-

' Murawicz, ebreo francese, è un trasfuga dal movimento di Lyndon Larouche. Oggi ha un contratto come ricercatore con la Rand Corporation, un think-tank dell'apparato mi­litare-industriale, di cui Rumsfeld è stato presidente.

 


 

ne i nostri nemici e attacca i nostri alleati" 3. Ma dietro queste grida fa­natiche c'è la fredda paranoide "strategia di grande potenza" di Perle e Ledeen: come è stato detto a conclusione della clamorosa "giornata di studio", l'invasione dell'Irak è solo "il perno tattico", mentre "L'Arabia Saudita è il perno strategico, e l'Egitto il premio". L'Egitto il premio? L'avidità dei figli di Abramo è sconfinata, e così il loro avventurismo '. È una guerra messianica di conquista contro l'intero mon­do islamico quella che viene qui progettata e perseguita. Purtroppo, an­che questo delirio è diventato il programma politico di Bush jr.

' "Briefing depicted Saudis as enemies", sul Washington Post, 6 agosto 2002. 11 giorna­le riporta il commento di Henry Kissinger: "Non considero i sauditi un avversario stra­tegico degli Usa. Sono filo-americani, devono barcamenarsi in un'area difficile, e alla fine li possiamo controllare".

Un "JINSA Report" del 15 febbraio 2002 non nasconde le mire dei militaristi messia­nici israeliti sull'Egitto. Ecco come ne riferisce il sito ebraico "Our Jerusalem ": "L'Am­ministrazione [Bush] non crede molto che l'Egitto sia un alleato fidato, né crede sul se­rio che partecipi attivamente alla guerra contro il terrorismo [...]. C'è qualche apprez­zamento per le striminzite aperture del governo egiziano all'israeliano la settimana scor­sa (è stato bello che l'ambasciatore israeliano al Cairo abbia presentato le credenziali insieme a dieci ambasciatori arabi che sono stati obbligati ad ascoltare la "Hatikva"). Ma c'è la preoccupazione che se l'Egitto (o l'Arabia Saudita o il Pakistan) cadono per la loro opposizione interna [...] mentre stiamo combattendo la guerra, ci troveremo di fronte a problemi che ora non vogliamo e per cui, per adesso, non abbiamo tempo. Per­ciò conviene all'Amministrazione, per ora, fingere che l'Egitto sia un alleato meritevole del sostegno americano. [Ma se] l'Egitto non è un membro del] "'Asse del Male-, non è nemmeno uno dei buoni ". (Our Jerusalem, Egipt Yet Again, 15 febbraio 2002). Si noti il tono da dominatori. È il tono dei messianismo Lubavitcher.



 

 

 

Capitolo 16
COMMANDOS A NOLEGGIO

"Un esercito segreto, invisibile e non inceppato dai codici di guerra": così uno stupefacente articolo del New York 7imes' rilevava un fatto ben noto negli ambienti della difesa americana. In Usa esistono una trentina di ditte che forniscono, su richiesta, commandos, piloti dì elicotteri e dì caccia, squadre d'assalto, radaristi, esperti di missili ed altri più sofisticati sistemi d'arma, truppe speciali. Agenzie di mercenari. "Il Pentagono non ne può più fare a meno", dice il giornale. E spiega che, riducendosi sempre più (dai 780 mila uomini che aveva al tempo della guerra del Golfo, l'esercito Usa è sceso a 480 mila), l'arruolamento regolare, il Pentagono ricorre sempre più a guerrieri privati a contratto. Durante la guerra del Golfo, su 50 militari regolari americani sulla linea dei fuoco, uno era un mercena­rio; nel 1996, nella "operazione di pace" in Bosnia, c'era un mercenarie su dieci regolari: praticamente il 10 per cento delle forze americane sono formate, oggi, da "civili" affittati per combattere. Donald Rumsfeld ha favorito questa inaudita privatizzazione della Difesa: "Ogni funzione che

può essere fornita dal settore privato non è affare dello Stato", ha detto

Le imprese americane sono famose per avere portato al limite estremo l'outsourcing, l'arte di affidare a terzi i servizi ausiliari, la gestione de personale, le paghe, l'ufficio legale, i trasporti, tutto ciò che non fa' parti dell'attività centrale (core business) dell'azienda. Rumsfeld ha applicate

Leslie Wayne, "Soldieis for Hire Bolster US Forces , sul New York Times, 21 ottobr 2002.


 

il sistema alla maggiore impresa pubblica Usa, il Pentagono. Benché i mercanari a nolo siano pagati tre volte di più che i militari di pari livello, "il sistema è economico: paghi gli specialisti a contratto solo finché li usi", spiega il colonnello Thomas Sweeney, docente di logistica all' Army War College, la scuola di guerra americana. Ma non è il solo vantaggio.

"Non più oscuri recessi del mondo i soldati a contratto sono presenti dove il Pentagono preferisce non apparire". Secondo il New York Times, nel­l' ottobre 2002 mercenari privati, su contratto della Difesa americana, ope­rano in Kuwait (addestramento con munizioni vere), in Colombia (opera­zioni antidroga segrete), in località non specificate dell'Africa (addetti ai sistemi d'arma troppo sofisticati per gli africani), in Nigeria, in Macedonia, in Bosnia, "a volte sulla linea del fronte" di guerre sconosciute ai giornali. Chi scrive ha visto coi suoi occhi, nel 1994, colonnelli americani in pen­sione, ma dall'aria di falchi, addestrare le truppe raccogliticce croate per prepararle a riprendersi la Krajna, regione che i serbi gli avevano strappa­to. Tutti vestivano camicie colorate da turisti e si dicevano "redattori di riviste militari", sul posto solo per scrivere reportages approfonditi. Uno si dichiarò direttore di Soldier of Fortune, un periodico speciale su cui appaiono inserzioni che chiedono (o offrono) soldati di ventura. Apprendo ora dal New York Times che facevano parte di una società anonima dal nome assai chiaro, Military Professional Resources Inc. o MPRI, la quale s'è appena vista rinnovare il contratto dalla Croazia per l'addestramento delle sue truppe. Ciò, nonostante nel '94 i croati preparati dal MPRI (e guidati dai suoi istruttori) abbiano compiuto un'accurata pulizia etnica di centomila serbi, fra varie atrocità.

La MPRI dispone di "oltre diecimila specialisti ex militari, comprese squa­dre di forze speciali, mobilitabili senza preavviso e pronti per ogni missio­ne". Il portavoce della citta, ex generale di brigata Harry Soyster, si vanta:

"Possiamo lanciare venti specialisti oltre il confine serbo entro 24 ore. L'esercito [regolare] non può, noi sì". Efficienza del privato.

Tra i dirigenti della ditta figurano il generale Carlo Vuono, già capo dello Stato Maggiore che diresse la guerra del Golfo e l'invasione di Panama; il


 

generale Crosbie Saint, già comandante supremo delle forze americane in Europa; il generale Ron Griffith, ex vicecapo dello stato maggiore.

Tutti oggi tornati a vita privata, ma non propriamente a riposo: hanno trasferito alle ditte la loro preziosa esperienza guerresca. E sono quel ge­nere di generali in pensione che abbiano trovato in gran numero nel Jewish Institute for National Security Affairs, in intima colleganza coi loro came­rati israeliani, e in stretti rapporti d'affari con i loro colleghi che siedono nelle aziende del settore militare-industriale.

Ancora più interessante; queste agenzie di mercenari sono spesso sussi­diarie delle grandi fabbriche di armamento. Per esempio la Logicon, che offre a chi ne ha bisogno "tecnologia informatica, logistica informatizzata, sistemi di pianificazione di operazioni congiunte interforze", è una sussi­diaria della Northrop Grumman, la produttrice di aerei senza pilota e altre armi volanti. La Kellog Brown & Root Services è una sussidiaria della Hallyburton, il colosso delle prospezioni petrolifere e degli oleodotti che ha avuto come presidente esecutivo Dick Cheney, l'attuale vicepresidente degli Stati Uniti. Ufficialmente, la Kellog Brown & Root fornisce servizi logistici, dal 1972, anche all'esercito americano. Ma quando, come la Hallyburton , si fa il mestiere di sfruttare pozzi e costruire oleodotti in zone ostili, la logistica comprende anche alcune funzioni del Genio e la difesa armata dei manufatti: di fatto, la KB&R è il piccolo ma efficientissimo esercito privato della ditta petrolifera. Oggi la sussidiaria fornisce la sua esperienza logistico-militare al Penta­gono; per esempio "è capace di costruire un campo in Uzbekistan in 72

ore". La Kellog Brown & Root si occupa di far funzionare le basi militari Usa in Turchia e in Kossovo (solo per il Kossovo, al costo per il contri­buente americano di 2,2 miliardi di dollari fra il '95 e il 2000), ma la sua specialità sono gli allestimenti rapidi di basi e i ponti aerei in ogni situa­zione, emergenza compresa.

La Vinnel Corporation vanta nel suo sito pubblicitario "la sua reputazione

di eccellenza nel fornire un vasto assortimento di servizi a governi, agen­zie internazionali, forze armate Usa e clienti privati". Tra i "servizi" sono citati "programmi di addestramento" e "trasporti aerei". È difficile dire se

 


 

siano della Vinnel gli aerei che mitragliano guerriglieri e narcotrafficanti nelle strane guerre in corso nell'America latina, se siano suoi i velivoli che spargono defolianti sulle piantagioni di coca, paracadutano agenti, e sbar­cano truppe speciali nelle giungle colombiane e peruviane. Possono esse­re di qualunque altra delle ditte più o meno conosciute, la SAIC, la Ici dell'Oregon, la Aviation Development Corporation dell'Alabama, che "con­duce missioni volanti di ricognizione per la Cia" sulle Ande 2: il business della guerra privata è assai riservato, e non ama dar troppe notizie di sé. Una sola agenzia di mercenari, la DynCorp, è stata qualche volta menzio­nata dai media, e non per motivi onorevoli: nell'operazione "di pace" in Bosnia, i suoi uomini sono stati sorpresi a gestire un grosso giro di schiave del sesso, povere ragazze del posto private del passaporto (confiscato dai mercenari) e costrette a prostituirsi; nel 2001, sempre gli uomini della DynCorps sono stati beccati dalla Dea a trafficare droga in Colombia, dov'erano stati inviati a contratto per stroncare il traffico 2. Veri e propri delinquenti, come inevitabile, si arruolano in questi eserciti a nolo. Mai perseguiti penalmente, coperti da reti di cameratesca complicità al più alto livello del Pentagono e dell'Amministrazione.

Perché, come dice il New York Titnes, ciò che rende preziosi questi soldati in vendita nelle nuove guerre intentate da Bush, è proprio il fatto che "non essendo militari regolari, non sono obbligati ad obbedire agli ordini né a seguire il codice militare di condotta". In guerra possono dunque essere

lanciati a compiere operazioni "sporche" di ogni genere. E lo stanno già facendo, se un senatore democratico, Patrick J. Leahy, lamenta al New

York Titnes l'uso di "combattenti " pr ivati " per condurre le politiche ame­ricane all'estero, che portano armi e pilotano elicotteri e non rispondono ad autorità superiori come il personale militare regolare".

Il tragico attacco dell' I 1 settembre, che ha portato il lutto e la distruzione in America, ha portato invece fortuna a queste agenzie: è il loro momento, Donald Rumsfeld le arricchisce con contratti miliardari per missioni sen­za vincoli di condotta contro gli "stati-canaglia". A' la guerre comme à la

2 Jason Vest, "DynCorp's Grug Problem", su The Nation, 3 luglio 2001.


 

guerre, canaglie per combattere guerre canagliesche, senza limiti etici, contro i nuovi barbari musulmani.

Così, forse, è con qualche ritardo che il New York Times s'inquieta di que­sti guerrieri a noleggio: "in tempo di pace possono agire come un'armata segreta che sfugge all'occhio del pubblico", ossia come esecutori di un colpo di stato. Forse è tardi per dolersi. Forse il colpo di stato è già avve­nuto in America. L' 11 settembre, il simultaneo dirottamento di ben quat­tro aerei di linea, il loro pilotaggio (forse teleguidato) verso gli obiettivi, con un tasso di successo del 75%; tutto ciò evoca irresistibilmente l'opera non di terroristi suicidi arabi a bassa tecnologia, ma di forze speciali per­fettamente addestrate e a conoscenza dei più sofisticati sistemi elettronici. Solo veterani addestrati ad azioni di commando, esperti di radar, di pilotaggio, insomma truppe speciali guidate da esperti in "missioni con­giunte interforze" possono aver spedito gli aerei sulle Twin Towers e sul Pentagono. Come s'è visto, non è difficile trovarne in abbondanza, in America, nel business privato della guerra. Molte aziende del complesso militare-industriale hanno in casa il loro corpo di mercenari, come la Northrop; anche le petrolifere texane, come la Hallyburton, ne dispongono. Gente fidata. Guidata da ex generali, "moti­vati dall'ideologia non meno che dal profitto", dice il New York Times: quel tipo di generali falchi che abbiamo visto sedere nel Jewish Institute of National Security Affairs, uniti dalla psicologia di Stranamore; ultrapatriottici, filo-israeliani a tutto tondo, sprezzanti della democrazia parolaia e pacifista, convinti di sapere che il Paese ha bisogno di guerra "durevole", perché la pace lo rammollisce e (in più) nuoce agli affari'.

' È precisamente la psicologia che negli anni '80 rivelò, durante le udienze che lo videro imputato, il colonnello Oliver North, promotore di una serie di operazioni coperte anticomuniste in Sudamerica e Medio Oriente (Iran-Contra), condotte con mercenari, uffi­ciali regolari e agenti espulsi dalla Cia. North proclamò che i suoi atti di fellonia, disobbedienza agli ordini ricevuti e tradimento erano motivato dalla "necessità" di condur­re la guerra contro i comunisti "senza pastoie", e dal suo patriottismo. Lui ed altri "patrio­ti" avevano messo in piedi operazioni illegali che la Cia non poteva condurre in proprio, perché controllata dal Congresso, utilizzando "imprese private" come agenzie di import­export o piccole compagnie aeree create ad hoc da ex agenti della Cia, che paracadutavano


 

 

Possono essere stati loro, i mercenari, gli esecutori dell' l 1 settembre? Una

cosa è certa: "Noi sappiamo fare le cose su breve preavviso e tenere la bocca chiusa", ha detto al New York Times uno di loro, Doug Brooks. Ex-colonnello, Brooks ha fondato il sindacato delle agenzie di guerrieri priva­ti, che si chiama International Peace Operatorion Association. Associazio­ne per le operazioni di pace internazionali: ineffabile.

armi (provenienti da Israele) ai Contras antisandinisti in Nicaragua. Lo scandalo lambì anche il vicepresidente degli Usa, George Bush senior, che era stato direttore della Cia. I: apparato paramilitare potenzialmente golpista era già allora visibile alla luce del sole in

Usa.


                                                                      Capitolo 17
                                                                   CUI PRODEST

 

I deliranti progetti strategici del Jewìsh Institute on National Security del suo gemello Center for Security Policy sono diventati politica di stato in America. Non ci sarebbero riusciti - non almeno senza forti opposizioni - senza l' l 1 settembre. Il mega-attentato terroristico, che per g americani ha il segno del dolore e del lutto, è stato per gli uomini dei di gruppi come il coronamento di un sogno, la conferma delle loro tesi pi estreme, e l'occasione felice per imporre le loro vedute.

So quel che dico. Ero in America, ed ho visto la faccia raggiante c Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa, tra le facce sgomente di suoi colleghi e dello stesso presidente Bush, in quei giorni tremendi. Da quando era entrato al governo, Rumsfeld proclamava la necessil del National Missile Defense (NMD), o spiegamento di un costosissimo e ipertecnologico scudo spaziale sui cieli americani "per proteggere la nazione contro minacce di stati canaglia e terroristi" in possesso di armi di distruzione di massa. Lo scetticismo dei militari, degli gli esperti qualificati, del Senato - riluttante a stanziare cifre colossi li per parare minacce del tutto improbabili, in spregio oltretutto ai ve( chi trattati con Mosca che vietano lo spiegamento di armi nello spazio - non lo scoraggiava affatto. Ripeteva: "non è questo il tempo i

cui il Pentagono può contentarsi di presidiare e di calibrare modesti mente le sue forze. Ci troviamo in un ambiente nuovo per la sicurezza nazionale. Dobbiamo essere pronti ad affrontare le nuove minacci non le vecchie".

 

 


 

Gli eventi dell' 11 settembre hanno elevato Rumsfeld al rango del profeta troppo a lungo inascoltato. Nei quattro aerei dirottati e lanciati nel volo di morte e distruzione, tutti gli americani hanno potuto vedere in tv il tipo estremo di "nuova minaccia" a cui la superpotenza non era "pronta". Per fortuna, la nuova minaccia si concreta nel momento in cui il profeta, fi­nalmente, siede sulla poltrona giusta - a capo del Pentagono - che gli mette in mano i poteri necessari a potenziare l'apparato militare Usa se­condo le sue visioni.

È dunque chiaroveggente Rumsfeld? È un genio della precognizione strategica? Se lo è, allora più di lui è profeta e veggente Michael T. Klare.

Chi è Klare? È un docente universitario, pubblicista, che redige articoli sulla difesa per The Nation. Ha previsto precisamente quel che Rum­sfeld avrebbe fatto come ministro della Difesa. E l'ha predetto esatta­mente otto mesi prima dei fatti dell' 11 settembre. In un articolo appar­so l' 11 gennaio 2001, Klare ha scritto a proposito del neo-ministro del­la nuova Amministrazione ': "lo spiegamento dello scudo spaziale è la

priorità assoluta di Rumsfeld, ma non è affatto l'unico dei suoi obbiet­tivi [...J. Questi comprenderanno un maggior impulso a sistemi bellici nello spazio, un approvvigionamento accelerato di armi ad alta tecno­logia, e un diminuito appoggio alle operazioni di pace delle Nazioni Unite [...] Rumsfeld è noto per la sua opposizione alle misure di con­trollo degli armamenti". Inoltre, la sua nomina "equivale alla promes­sa di un duro atteggiamento verso Saddam Hussein", profetizza Klare. E lo descrive come un uomo della "guerra fredda, quando sicurezza nazionale significava diffidenza verso tutti gli altri stati e corsa ad ar­mamenti sempre più potenti".

E Michael Klare prevede le future azioni di Rumsfeld senza bisogno di consultare la sfera di cristallo. Gli basta consultare i dati sulla carriera, gli amici, le alleanze politiche di Donald. Infatti, Rumsfeld è in politica

' Michael T. Klare, "Rumsfeld: star warrior returns", su The Nation, 1 1 gennaio 2001.


 

dagli anni '70: durante la presidenza Nixon, fu nominato direttore di un Office for Economic Opportunity, in cui "ha stretto intimi legami con Dick Cheney". Ambasciatore presso la Nato nel 1972, Donald è stato poi nominato da Gerald Ford segretario alla Difesa per quattordici mesi, (dal 1975 al 1977): sua prima elevazione al Pentagono, durante la quale "ha

coperto la casta militare da ogni sanzione per la sconfitta in Vietnam e ha posto le basi per la fornitura di una vasta panoplia di nuove armi, fra cui il bombardiere B-1 e il missile M-X".

Due sistemi assai costosi, che devono aver reso Rumsfeld grato al cuore e ai portafogli delle grandi ditte che lavorano su contratto col Pentagono. Così, quando alla Casa Bianca s'insedia un democratico, Jimmy Carter, Rumsfeld trova porti sicuri nel settore privato: dopo un passaggio come alto dirigente alla Searle (una farmaceutica poi acquisita dalla Monsan­to), egli "prende il controllo di una grossa azienda, la Generai Instrumen­ts Corporation", che è una delle ditte del settore militare industriale. In­tanto, diventa presidente della RAND, una delle fondazioni "culturali" di Washington specializzata in studi strategici e militari, di fatto la più au­torevole lobby del complesso militare-industriale, dove ovviamente "stringe nuovi legami con figure del mondo industriale".

Fra l'altro, con Theodore Forstmann 2 uno specialista in acquisizioni, che possedeva "la Gulfstream Aerospace, nel 1999 venduta alla Generai Dy­namics". È la ditta che, come abbiamo visto, progetta e sviluppa droni - aerei teleguidati senza pilota - per l'aviazione Usa e israeliana. Nel 1983, Donald viene richiamato alla grande politica: Ronald Reagan lo nomina "special envoy", ambasciatore viaggiante, presso Saddam Hus­sein. In quella veste, Rumsfeld si reca a Bagdad: e non, come si potrebbe credere, per schiaffeggiare il tiranno irakeno. Sono altri tempi, Saddam sta logorando il suo paese in una guerra contro l'Iran che logora anche il

' Forstmann ha creato e finanzia una propria `fondazione culturale"; chiamata Empower America, che ha nel suo consiglio d'amministrazione alte personalità conservatrici e re­pubblicane, fra cui Rumsfeld, e che ' fa' campagna per una grossa riduzione delle im­poste e per la difesa spaziale" (Michael Klare, cit.)


 

regime di Teheran, e perciò è considerato ancora dagli Usa "un valido alleato": il complesso militare-industriale americano lo fornisce di armi.

Anzi "Rumsfeld è a Bagdad proprio il giorno in ceti l'Onu, per la prima volta, rende noto l'uso di armi chimiche da parte dell'Irak, ma sceglie il silenzio ... ancora cinque anni dopo, [Rumsfeld] menzionerà la sua capa­cità di rendersi amico Saddam Hussein come una delle sue qualità in caso di una sua candidatura alla Presidenza"'.

Nel 1996, Rumsfeld sostiene la campagna del candidato repubblicano Bob Dole contro il democratico Bill Clinton: soprattutto "accusandolo di essere molle con l'Irak". Vince Clinton, tuttavia. E Rumsfeld torna al pri­vato. Compra una sua azienda, la Gilead Sciences, e siede intanto nei con­sigli di diverse imprese, fra cui laAsea Brown Boveri, il gigante europeo che ha un importante settore militare.

La sua fama di "falco" si consolida sempre più. Al punto che i repubbli­cani al Congresso affidano a lui, nel 1998, la presidenza della "Commis­sion to Assess the Ballistic Missile Threat to the United States". Una com­missione per "valutare la minaccia missilistica". È proprio il campo suo,

anzi un ufficio che pare creato apposta per lui. E infatti la commissione (sei repubblicani e tre democratici) viene presto chiamata "Commissione Rumsfeld". Essa ha accesso a "dati spionistici segreti", e li studia per

"calcolare la futura capacità di Iran, Irak e Nord Corea di attaccare gli Stati Uniti". È questa commissione che, "adottando il criterio del caso peggiore", preconizza che l'uno o l'altro dei suddetti "stati canaglia"

possano colpire gli Usa "entro i prossimi cinque anni".

La Cia, basandosi sugli stessi dati "segreti", prevede un tempo doppio.Le valutazioni della Commissione Rumsfeld vengono infatti "messe in

' Andrew Gumbel, "Fortune of war await Bush's circle after attack on lraq", su Inde­pendent, 12 settembre 2002. Secondo l'Associazione dei reduci della guerra dei Golfo, "la Cia prese a fornire segretamente all'Irak nel 1984 informazioni da usare per ',cali­brare" gli attacchi al gas contro le truppe iraniane; ciò significa che Ruinsfeld e com­pagni non solo sapevano della guerra chimica, ma hanno aiutato l'lrak a colpire le vit­time" (Scan Gonsalves, "US was a key supplier tio Sadda m", sul Seatile Post Intelligen­cer, 24 settembre 2002.


 

discussione da George Tenet, il direttore della Central Intelligente Agen­cy". Ma ormai è Rumsfeld l'autorità in materia. Sostenitore delle "cause della destra militare", egli ha stretti rapporti con l'apparato interessato a queste cause. Fra cui, nota Klare, specialmente significativa la stretta associazione [di Rumsfeld] con il Center for Security Policy, il think-tank creato da Frank Gaffney",

E così il cerchio si chiude. Le idee strategiche di Rumsfeld sono quelle dell'israelita Gaffney, e del suo Center for Security Policy (CSP), la cre­atura gemella del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA). I due centri privati d'interesse dove "il business e l'ideologia si mescola­no completamente", e dove la lobby ebraica celebra le sue nozze con l'ap­parato militare-industriale americano. Qui, il concetto di "complesso militare industriale" perde ogni generici­tà e vaghezza, così come quello di "lobby ebraica". Qui, al CPS o alla JINSA, i consulenti e dirigenti della Northrop e della Boeing siedono ac­canto ai Wolfowitz e ai Perle e ai Ledeen, che ora sono dentro e vicini al governo; qui i grassi contratti di fornitura al Pentagono si coniugano con le ricche forniture militari ad Israele; qui i due gruppi, le due lobbies, si scambiano informazioni d'intelligence e concertano azioni comuni. Qui - saremmo tentati di dire - c'è la concentrazione di potere, di mezzi e di volontà più che sufficiente per trasformare le profezie in realtà. An­che quelle di Rumsfeld sulla necessità di essere pronti alla guerra senza

fine al "terrorismo globale".

Naturalmente non crediamo a quello che diciamo. Crediamo, come tutti, che l' 11 settembre sia stato l'opera malvagia di Bin Laden. Crediamo che la sua rete Al-Qaeda abbia avuto la capacità tecnico-militare suprema di dirottare quattro aerei di linea contemporaneamente: un'operazione di commando senza precedenti nella storia per audacia e precisione, com­piuta da specialisti molto addestrati, e pronti al suicidio. Che l'abbia mes­sa in atto in quattro dirottamenti sincroni in aeroporti civili affollati come il Logan di Washington, superando per lo più la vigilanza, che in quel­l' aeroporto è affidata alla israeliana ICTS, che impiega ex agenti dello

 


 

Shin Beth. Che l'abbia fatto con armi semplici come dei taglierini per cartone. Che l'impresa abbia avuto il suo tragico successo in tre casi su quattro - un tasso di riuscita che qualunque forza speciale invidierebbe - portando distruzione e morte nel cuore dell'America.

Ci crediamo. Anche se Al-Qaeda non ha mai dato prova, né prima né dopo, di poter ripetere un'impresa di tale precisione militare, e anzi l'or­ganizzazione stessa sembri oggi assai al di sotto della fama che s'è gua­dagnata l' 11 settembre.

Ci crediamo. Se non ci credessimo, dovremmo dare ragione a certe teo­rie complottiste che circolano su internet, secondo cui non ci sono stati terroristi suicidi arabi, ma forse, tutt'al più, qualche arabo a cui s'è fatto credere di partecipare a un dirottamento; dovremmo credere che i quat­tro aerei siano stati teleguidati, in una orribile `false flag operation", da potenze interessate a costruire un casus belli abbastanza orribile da giu­stificare una guerra infinita contro un "asse del male" che ogni giorno si arricchisce di nuovi membri.

Non ci crediamo. Ma se dovessimo credere una cosa del genere, è pro­prio contro organi come JINSA e CSP che punteremmo il dito. Lì ci sono le competenze per faccende del genere. Lì ci sono gli interessi, le moti­vazioni, l'ideologia fanatica necessaria a un delitto di tali proporzioni. Sono quegli ambienti che hanno tratto impensabili giovamenti dalla tra­gedia: oggi il Pentagono è in mano loro, e sono loro a dettarne le strate­gie e le dottrine; in qualche modo, dal crollo delle Torri, abbiamo assisti­to ad una inedita "privatizzazione" della Difesa americana: i fornitori han­no preso possesso del committente. Lì, soprattutto, si hanno a disposizio­ne i mezzi tecnico-militari - inediti, unici, segreti - per attuare la biso­gna.


 

Capitolo 18
I DRONI SENZA PILOTA

"La maggior parte degli aerei moderni dispongono di un pilota automa­tico che può essere ríprogrammato in modo da ignorare i comandi di un dirottatore e invece ricevere istruzioni da terra": così annuncia il profes­sor Jeff Gosling, dell'Istituto di Studi Aeronautici della California Uni­versity, Bekeley. Il professore l'ha detto a New Scientist, una rivista scien­tifica inglese assai nota.

Un articolo in cui si discutono i modi e gli accorgimenti tecnici per scon­giurare un altro 11 settembre. Uno strano articolo davvero: New Scientist lo pubblica il 12 settembre 2001, solo un giorno dopo la tragedia. E lì su due piedi, ancora sotto la fresca impressione della strage (pochi giorni dopo la stampa diverrà più reticente), "esperti" di cose aeronautiche di­cono cose di enorme interesse per i complottisti'. La rivista cita anche Dale Oderman, un ingegnere della Purdue University di Lafayette, India­na, che spiega: "il pilota automatico, il sistema che mantiene altitudine, velocità e rotta durante il volo, è pienamente capace di atterrare senza il pilota umano. Siamo già in grado di far volare aerei spia senza pilota, sicché non è impensabile che un sistema di teleguida possa far atterrare un aereo commerciale per passeggeri". La Federal Aviation Administra­tion, aggiunge il periodico, "ha sperimentato l'atterraggio teleguidato di aerei commerciali negli anni '80, ma non in anni recenti". Sull' adozione

' Catherine Zandonella, "Autopilot could land hijacked planes", New Scientist.Com, 12 settembre 2001.

 


 

 

di un sistema del genere, tuttavia, ha dei dubbi Jeffrey Speyer, un altro ingegnere spaziale (della California University di Los Angeles): "il siste­ma di controllo a distanza potrebbe in sé diventare il bersaglio di terro­risti". Ossia, loro potrebbero usarlo.

Attenzione a quel che dicono costoro. Dicono: teleguidare un aereo è pos­sibile. Le tecnologie per sottrarre i comandi al pilota umano, e far guida­re il mezzo da terra, esistono già. Basta "riprogrammare" il pilota auto­matico, secondo gli esperti.

Ma ancor più clamoroso è quel che suggeriscono. Un aereo può essere teleguidato da terra. Fatto atterrare. O anche, se un terrorista si impadro­nisse del sistema, fatto lanciare contro qualcosa. I complottisti su internet sono elettrizzati dalla notizia; e ne discutono ani­matamente, con l'intervento di piloti veri e presunti. Uno di loro (si chia­ma Guy Dunphy) segnala che l'articolo di New Scientist, così apparente­mente chiaro, confonde invece due idee (e due sistemi tecnici) diversi. Una cosa è il "pilota automatico", una cosa è un sistema di "teleguida" da terra. Il primo è appunto "automatico" (anche se il pilota umano, pre­mendo il grosso pulsante rosso sulla leva di pilotaggio, può disattivare l'automatico in ogni momento, per fronteggiare da sé un'emergenza); il secondo è un sistema "attivo". "Per teleguidare un aereo, il controllore umano da terra dovrebbe avere davanti un "display in tempo reale di molti cruciali strumenti di volo", e (o) una veduta video dalla fronte dell'ae­reo; inoltre, qualche sistema di localizzazione fissa come il GPS (Global Positioning System).

I velivoli militari a controllo remoto (RPV, remote piloted vehicles, detti anche "droni") hanno una telecamera sul muso che rimanda al suolo, al­l'operatore, le immagini via satellite, un sistema di navigazione inerziale (GPS), o anche un apparato di "navigazione attraverso ricognizione au­tomatica del suolo", ossia una mappa nel cervello elettronico del terreno che deve sorvolare: che è appunto il modo in cui volano, e arrivano sul bersaglio, i missili da crociera. Piccoli, molto più piccoli di un jet di li­nea, i cruise missiles dispongono di questo sofisticato sistema. Ma un aereo di linea non dispone di tanto, dice Dunphy.


 

Gli replica un tale Jerry Russell. Citando un articolo del Chicago Tribu­ne trovato sul web ?, che recita: "la Generai Atomics Aeronautical Sy­stems Inc. ha sviluppato per l'Air Force un aereo teleguidato di ricogni­zione chiamato Predator, che ha volato durante il conflitto in Bosnia. Uti­lizzato militarmente dal 1994, esso può essere fatto atterrare da piloti col­legati all'apparecchio via satellite, da terra, o ordinando al computer di bordo di eseguire l'ordine".

"Toni Cassidy, presidente dell'azienda di San Diego, dice di avere invia­to al Segretario ai Trasporti Norman Mineta una lettera poco dopo l'at­tacco dell'11 settembre". "Tale sistema non può impedire a un dirottato­re di distruggere l'aereo in volo, diceva la lettera, ma gli può impedire di guidare l'apparecchio contro un palazzo o un'area popolata ". (...]Ae­rei in qualunque punto della nazione potrebbero essere tele-controllati da uno o due località grazie a collegamenti via satellite, dice Cassidy. Que­ste locazioni potrebbero essere fortificate contro i terroristi". "La tecno­logia c'è", conclude: "La usiamo ogni giorno". Ecco tornare il concetto: le tecnologie del controllo a distanza esistono già. I militari ne dispongono dal '94. Già. Ma sarebbe poi possibile, senza mettere in allarme il personale a ter­ra di un aeroporto, inserire il sistema di teleguida del tipo che equipaggia il Predator su un grosso aereo di linea? Non ci vorrebbe una squadra di tecnici? Il loro armeggiare attorno e dentro l'aereo non sarebbe immedia­tamente notato?

Non proprio, risponde Russell. Sul sito della Boeing 3, ha scoperto che il computer di volo dei giganteschi Boeing 757 e 767, che è un equipaggia­mento standard, ha praticamente tutte le capacità richieste.

Ecco come la Boeing stessa parla del suo sistema di pilotaggio automatico nel suo sito informativo-pubblicitario: "...un computer di gestione del volo completamente integrato (FMCS) si occupa della guida e del controllo automatici del 757-200 da immediatamente dopo il decollo fino

 

 

 

 

 

 

 

 

1 chicagotribune.con/technology/chi-OI09280208sep28.story.

2 sul web: boeing.con/commercial/757-200/background.html.


 

all'avvicinamento finale e all'atterraggio. Il FMCS, collegando i proces­sori digitali di controllo della navigazione, della guida e della potenza­motori, assicura che il velivolo voli lungo la rotta più efficiente e con il profilo di volo migliore per ridurre il consumo [...] La precisione della navigazione con posizionamento satellitare (GPS), funzioni automatizzate di controllo del traffico aereo, e caratteristiche avanzate di guida e co­municazione sono ora disponibili nel nuovo computer di gestione del volo Future Air Navigation System".

Poi, ecco la frase più istruttiva: "inoltre, funzioni ulteriori possono fa­cilmente essere aggiunte semplicemente "caricandovi" il software ri­chiesto".

Dunque, nessun bisogno di sostituire schede elettroniche nel meraviglio­so computer di gestione del volo, che comprende tra le sue funzioni il pi­lotaggio automatico. Niente cacciaviti, nessuna operazione materiale e fisica. Non c'è bisogno di una vistosa squadra di tecnici. Basta un solo esperto informatico per "caricare il software" con un disco o un compu­ter portatile collegato al cervello dell'aereo.

 

 

L'operazione, spiega la Boeing, è lunga e complessa se si tratta di modi­ficare l'OPS, l'Operational Program Software, traboccante di informazio­ni. Ma diventa breve e facile se, invece, si modifica l'OPC. Operational

Program Configuration: "questo software è una banca-dati specializzata che [...]funziona attivando o disattivando le funzioni opzionali consentite nell'OPS. L'OPC è un programma piccolo in confronto all'OPS e si carica in meno di un minuto". E ancora: "la programmazione cari cabile è un utile strumento per gli operatori Boeing che consente loro di cam­biare o adeguare rapidamente le funzioni dei loro aerei commerciali". E

di fatto è quel che i tecnici fanno di routine. Per esempio, cambiano ogni 28 giorni un terzo programma, il NDB (Navigation Database) "una ban­ca-dati delle informazioni di rotta e di navigazione", che comprende, se capiamo bene, le mappe elettroniche di piste d'atterraggio di tutto il mon­do, o qualunque altra mappa - che il pilota automatico può essere "pro­grammato" a seguire.

In un minuto. Nessun pericolo, per un esperto che voglia inserire nel cer­-


 

vello dell'apparecchio un programma che lo guidi contro qualcosa, di dare nell'occhio. Specie quando si sa - si sarebbe tentati di dire - che tutti gli aereoporti da cui sono partiti gli sciagurati velivoli dell' 11 settembre utilizzano, per la sicurezza interna e il controllo-passeggeri, i servizi di un'azienda di polizia privata israeliana 4. Ma su internet c'è di più. Vi si trova ad esempio l'intervista che Andrea,, von Buelow, un ex ministro tedesco (socialdemocratico) della Tecnolo­gia, ha rilasciato al giornale Tagesspiegel il 13 gennaio 2002. Von Bue­low ha messo in dubbio fin da principio la versione ufficiale sull' 11 set­tembre 5. Ora aggiunge: c'è anche la teoria dì un ingegnere aeronautico britannico: secondo costui, il pilotaggio degli aerei può essere stato sot­tratto ai piloti dall'esterno. "Gli americani hanno sviluppato negli anni '70 un metodo per soccorrere gli aerei dirottati intervenendo [da terra] sul pilota automatico".

E aggiunge l'ex ministro: "all'inizio degli anni '90 una grossa compa­gnia di bandiera europea venne a saperlo e si allarmò che un suo appa­recchio potesse essere "salvato" dagli americani senza permesso. Per­ciò la compagnia smontò i computer di gestione del volo da tutta la sua flotta, rimpiazzandoli con una versione fabbricata in casa. Questi aerei sono oggi immuni da penetrazione...".

Von Buelow non sembra bene informato: perché cambiare i computer, quando basta cambiare ì programmi, il software? In ogni caso, la sua fon­te d'informazione, "l'ingegnere britannico", pare essere un altro complot­tista reperibile sulla Rete: Joe Vialls, un inglese che altri complottisti ri­tengono "un ex membro delle SAS", le truppe speciali britanniche. Vialls ha un sito parecchio antisemita. Dove dice che fin dagli anni '70 "due multinazionali americane hanno collaborato col DARPA (Defense Advan­ces Projects Agency, un'agenzia governativa militare statunitense) sii Liti progetto per il recupero da terra di un aereo dirottato. [Il sistema] con­

Si tratta, ricordiamo, della ICTS, di cui risulta proprietario Ezra Harel, un israeliane domiciliato in Olanda. La stessa ditta sorveglia l'aeroporto Charles de Gaulle a Parigi. s Cfr. il mio "Il settembre: colpo di Stato in Usa", p. 115.


 

sentiva a controllori a terra di ascoltare le conversazioni in cabina, e di prendere il telecontrollo assoluto dei sistemi computerizzati di pilotag­gio a bordo". Vialls sostiene che la compagnia europea di bandiera che ha depurato i suoi aerei (made in Usa) dal programma di teleguida è la Lufthansa. Per lui, va da sé, non c'è dubbio che "il sistema è stato usato per prendere il controllo da terra dei quattro aerei usati nel grande at­tacco dell'11 settembre" 6.

Ci affrettiamo a ripeterlo: non crediamo a una parola di tutto questo. Se dovessimo crederci, ci sarebbe difficile vedere che dei terroristi arabi, vo­tati alla morte ma ridotti ad addestrarsi in scuolette di volo domenicali in Florida, siano capaci di introdursi nelle meraviglie dell'avionica, in gran parte segreta perché militare, che rende possibile la teleguida di aerei.

Ci sarebbe più facile additare quelle industrie avanzatissime americane che hanno conoscenza di prima mano di quell'elettronica di volo, perché sono loro a svilupparla, progettarla, fabbricarla. La Northrop Grumman, che fornisce il Pentagono del gigantesco aereo teleguidato da ricognizio­ne Global Hawk. La Gulf Airstream, che produce droni senza pilota per le forze armate americane non meno che per le israeliane. La Boeing, for­nitrice ad entrambe le armate dei suoi F-15 e degli Apaches. Sono loro che fabbricano i Predator teleguidati e gli UCAV (aerei robot da ricogni­zione) dell'ultima generazione, vent'anni più avanti di qualunque tecno­logia conosciuta in Europa 7.

e Queste ed altre informazioni sul world wide web: 91 l-strike.comlremote.htm

Da citare al proposito un articolo apparso su Il Foglio (che in Italia è il portavoce più intelligente del Likud) del 28 settembre 2002, a Firma di Carlo Pelanda, un esperto di modelli strategici, israelita, con buoni contatti con l'apparato militare americano. "[...] Sempre più nuovi concetti si stanno affermando nel disegno di armamenti progettati oggi [in Usa]. Tre in particolare: a) la capacità di colpire in modo remoto dovunque; b) ro­botizzazione degli strumenti bellici; c) aumento della capacità di fuoco delle singole uni­tà. L'insieme concepito come gestione integrata di un campo (li battaglia dove un oc­chio vede tutto grazie a sensori multilivello, dallo spazio a telecamere montate sugli el­metti, e un'intelligenza artificiale sintetizza su una sola schermata il quadro complessi­vo degli eventi, permettendo una regia sistemica. Le esigenze correnti (Afghanistan, Iraq...) stanno accelerando la costruzione di piccoli aerei robotizzati di nuova genera­zione (Ucav) per l'osservazione continua di un territorio e l'attacco di bersagli con


 

Sono quelle imprese - il complesso militare industriale - i cui consiglie­ri d'amministrazione, consulenti e portavoce (generali e ammiragli in pensione, ultrapatriottici dottor Stranamore) siedono accanto agli amici israeliti nella JINSA, e con cui condividono le tecnologie più avanzate. Lì ci sono le competenze tecniche. Il personale specializzato. Gli specia­listi capaci di infiltrazione. I mercenari da operazioni speciali. L'abitudi­ne alla segretezza. L'attitudine storica ad agire dietro le quinte. L'abilità tattica di condurre operazioni `false flag". E lì, il grumo di ideologie, in­teressi e motivazioni capaci di indurre a creare a bella posta un casus belli tragico e clamoroso, per far avanzare gli affari. Lì, infine, il potere di sop­primere l'altra verità, se appena qualcosa ne emerga. Il giorno 11 settembre, il telegiornale Fox News Channel segnalò l'arre­sto di cinque israeliani in atteggiamento sospetto; più tardi lo stesso tele­giornale (l'abbiamo raccontato in un altro libro) a diede ampia notizia del­la rete di spie israeliane scoperta e in parte sgominata dalla Dea, l'ente antidroga. Una inchiesta in quattro puntate, condotta dal coraggioso gior­nalista Carl Cameron. Le trascrizioni dell'inchiesta furono "affisse" sul sito internet della Fox Tv. Per qualche giorno soltanto, poi scomparvero. Ora, una rivista americana è stata in grado di scrivere quanto segue: "È stato il Committee for Accurate Middle East Reporting in America (CA­MERA) a organizzare la mobilitazione a forza di fax, e-mail, telefonate, lettere, che ha obbligato la Fox Tv a rimuovere dal proprio sito web le trascrizioni dei quattro servizi dì Carl Cameron".

munizionamenti intelligenti. Tale accelerazione del nuovo non sta creando solo conse­guenze sul piano degli impieghi militari, ma anche un nuovo scenario industriale. Tra dieci anni tutte le armi di oggi saranno obsolete o inutilmente costose. La superiorità sarà basata sulla tecnologia dell'informazione. Ciò crea un grosso problema agli euro­pei che a tale livello sono almeno 20 anni dietro agli Usa... Quindi è probabile che l'in­dustria europea degli armamenti, e parte di quella tecnologica collegata, sparirà. C'è una via di salvezza? L'unica è fondersi con aziende americane già collocate nel futuro e formare un unico mercato euroamericano del settore", Pelanda propone insomma la subordinazione-integrazione del complesso militare europeo a quello statunitense, e dun­que a quello israeliano.

s Cfr. il mio "Il settembre, colpo di Stato in Usa", p. 66 e segg.


 

 

Ora, CAMERA è ovviamente una delle tante organizzazioni in cui si di­rama la lobby ebraica. Il suo direttore si chiama David Steinmann. Che è anche, scrive la rivista, "presidente e direttore generale del JINSA". Un organismo, viene scritto, "che non cela il fatto di reclutare una quinta co­lonna israeliana dentro gli alti comandi militari Usa". Tanto da giustifi­care il titolo dell'articolo': "JINSA insabbia lo scandalo delle spie isra­eliane" arrestate (e poi misteriosamente rilasciate) in circostanze sospet­te l' 11 settembre.

1 "JINSA cover-up israeli spy scandal", su Esecutive Intelligence Review News Service, 1-6-2.

 

Capitolo 19
LA
"PREVISIONE" DEL COUNCIL
ON FOREIGN RELATIONS

Il 22 gennaio 2000 fu una giornata fredda a New York. Ma su Wall Street non cessava di splendere il sole delle ricchezze: la Borsa saliva da quasi un decennio senza interruzione, il più grande boom finanziario della sto­ria. Era in realtà - oggi lo sappiamo - la più grande bolla speculativa della storia, un'inflazione delirante sui titoli, alimentata da indebitamenti co­lossali e illegali. Ma gli economisti assicuravano che il rialzo sarebbe con­tinuato all'infinito. Le cicliche crisi speculative americane, il crollo dopo il boom, non si sarebbero più prodotte: era la prima legge della New Eco­nomy, i computer aumentavano tanto la produttività da non far mai tra­montare il sole sull'economia.

Quello stesso giorno però, gente importante, ricca, ben informata, nonché di solito molto occupata, stava spendendo otto ore del suo tempo (che è denaro) a giocare. Un gioco importante per persone importanti - banchie­ri, ex ministri del Tesoro, ex direttori della Cia, alti responsabili del Dipar­timento di Stato - che si teneva nello sfarzoso quartier generale del Coun­cil on Foreign Relation (CFR) di East Side, Manhattan. Un "war game", una simulazione di scenario, come si dice. Le persone importanti cercava­no di capire cosa fare nel caso di un crollo simultaneo dei mercati finanziari maggiori del pianeta. Il titolo del gioco diceva il contrario dell'euforia che si leggeva quel giorno sui giornali per il popolo. Il titolo era: "l'imminente crisi finanziaria: segni premonitori, controllo del danno e conseguenze" '

' Le sole informazioni su questo strano gioco sono state pubblicate da Richard Freeman ("CFR bankers pian for financial crash"), sulla Executive Intelligence Review del 28 lu­glio 2000. Questa è la nostra tonte principale.


 

Tale almeno il titolo del convegno riservato che fu riunito mesi dopo, il 12-13 luglio 2000, per commentare i risultati dello scenario simulato a gennaio. Perché i dati del "gioco" non sono stati pubblicati. Sono segre­ti. Tutto quel che se ne sa è quello che è trapelato da alcuni dei 250 per­sonaggi che hanno partecipato al raduno di luglio: banchieri, speculatori, imprenditori di multinazionali, politici. Al gioco avevano partecipato in­vece 75 persone.

Come accade in simili simulazioni ("giochi di ruolo"), i 75 giocatori si erano spartiti le parti. Che erano quattro: un gruppo impersonava "l'au­torità monetaria", ossia assunse le funzioni della banca centrale, la Fe­deral Reserve: sappiamo, per esempio, che Jessica Einhorn, già direttri­ce e tesoriera della Banca Mondiale, recitò nel ruolo di vice-presidente della Federal Reserve. Un altro gruppo recitò la parte dell'autorità pub­blica che sovrintende al commercio e all'economia, ossia alle funzioni del Ministero del Tesoro. C'era un terzo gruppo, che nel gioco rappresentò le "autorità regolative". Infine, il quarto gruppo impersonò "la sicurezza nazionale": protagonista, nel ruolo di Segretario alla Difesa, l'ex diretto­re della CIA James Woolsey, che abbiamo già visto membro del JINSA e amico intimo dei superfalchi ebraici del Pentagono, Wolfowitz e Perle.

I giocatori dovevano affrontare una situazione di crisi improvvisa e simul­tanea di diversi mercati. Un scenario spaventoso: crollo dell'indice bor­sistico americano (Dow Jones) da 10000 a 7100; prezzo del petrolio in rialzo fino a 36 dollari il barile; calo drammatico del dollaro rispetto ad euro e yen. Tra le altre ipotesi, si assumeva la bancarotta dell'Ucraina e la sua impossibilità a pagare alla Russia le forniture di petrolio, con im­minente pericolo di guerra fra i due paesi (entrambi dotati di armi nucle­ari); il fallimento di una grossa compagnia d'assicurazione britannica grande speculatrice sul mercato dei derivati, che creava il panico su quel mercato.

Non si trattava di ipotesi fantascientifiche. L'una o l'altra catastrofe, di fatto, si sono avverate nel recente passato a causa del mercato globale e sregolato dei capitali. La crisi asiatica di liquidità (e fuga di capitali este­ri) che ha rovinato vari paesi estremo-orientali nel 1997. L'insolvenza


 

della Russia sui suoi Buoni del Tesoro nel 1998, che fu simultaneo al fal­limento del fondo super-speculativo Long Term Capital Management (dove due premi Nobel per l'economia gestivano 1250 miliardi di dollari in derivati, e scatenarono il terrore fra i miliardari). Che fare dunque, in simile crisi? I giocatori decisero - attenzione, qui è il punto cruciale - di "assumere i poteri del Presidente" degli Stati Uniti. Lo disse ridendo a qualche giornalista uno dei partecipanti al gioco, Ja­mes Jones, già deputato, poi ambasciatore in Messico e oggi avvocato

d'affari: "Siamo partiti dal presupposto che il Presidente fosse incapaci­tato. Dal presupposto che Clinton era depresso perché costretto a rinun­ciare al suo passatempo preferito, e non sto alludendo al golf Insomma, abbiamo dovuto decidere se assumere i poteri presidenziali".

Vorrei che il lettore tenesse bene a mente questo fatto: come primo atto per affrontare la crisi a modo loro, i giocatori del CFR decisero un colpo di Stato. Di sostituire il governo eletto con un comitato d'affari che ne assumeva segretamente i poteri.

Perché? Perché il soccorso ai "mercati finanziari" che lorsignori ritene­vano necessario in quello scenario di collasso, era illegittimo e illegale. Esso consisteva in fornire "grosse iniezioni di contante" agli speculatori rovinati dalla crisi "perché potessero far fronte ai pagamenti senza dove­

re svendere il loro portafoglio-titoli a prezzi di liquidazione sul mercato

in caduta", come spiegò un testimone del gioco (non citato per nome) alla rivista Euromoney. Nella simulazione, "il gruppo dei regolatori [cioè del governo-ombra golpista] contattò la banca d'affari J.P.Morgan e propo­se che la Federal Reserve aprisse una vasta linea di credito agli specu­latori falliti. La Morgan si sarebbe assunta l'eccesso di collaterale, ma non avrebbe assunto il rischio di credito, che sarebbe rimasto a carico della Federal Reserve. La banca mondiale, con riluttanza, accettò".

In parole più semplici: i giocatori (o congiurati) decisero di "salvare i mercati finanziari" al prezzo di distruggere l'economia reale. Come ha ammesso la già citata Jessica Einhorn, "abbiamo tenuto aperti i mercati

principali, e lasciato andare tutto il resto. Abbiamo abbassato i tassi d'in­teresse e iniettato liquidità. L'importante era creare l'illusione della fi­-


 

 

dacia". Chi doveva essere illuso? I risparmiatori, i contribuenti, il grande pubblico. "Tutto ciò che il pubblico avrebbe visto, era che il volume dei prestiti della Federal Reserve alle banche era aumentato".

Quanto al "lasciar andare tutto il resto", fu Peter Schwartz, l'esperto di war-game che condusse il gioco, l'uomo che studia gli scenari futuri per la petrolifera Royal Dutch Shel12. Per esempio, disse Schwartz, "Tutti

quelli che hanno l'Aids in Africa devono morire il più presto possibile. Non devono essere tenuti in vita", perché costa troppo. Di fatto, il gioco previde e accettò la morte di decine di milioni di persone a causa della crisi economica provocata dal collasso speculativo. Ci fu anche l'opzio­ne del controllo militare sulla popolazione, o il lancio di una guerra per mascherare la bancarotta finanziaria? È probabile: accanto a Schwartz, nel gioco del CFR, era presente l'ammiraglio a quattro stelle William Fla­nagan, già comandante della flotta atlantica Usa (1994-96), oggi a ripo­so: uno dei gallonati in pensione che sono al centro delle attenzioni dello JINSA.

Sappiamo che non mancò chi propose soluzioni diverse, meno omicide. Non a caso, si trattava di un europeo: Hannes Ansrosch, austriaco, già Ministro delle Finanze del suo paese (1970-1981), socialdemocratico. Androsch propose di tornare a una "severa regolamentazione" dei mer­cati speculativi.

Nessuno degli altri giocatori accettò la proposta dell'austriaco. A dargli sulla voce furono specialmente Roger Kubarych, il capo del progetto "Fi­nancial Vulnerabilites" del Council ori Foreign Relations, ex banchiere d'affari, e Henry Kaufman, presidente della propria banca d'affari (Hen­ry Kaufman & Co.) e, prima, della Salomon Brothers. Insomma fu la voce

Z Schwartz è un guru delle simulazioni di scenario. Dall'82 dirige lo "Scenario Plan­ning Deparnnent" della Royal Dutch Shell Oil Company. Egli organizza regolarmente war games per gli alti dirigenti della Sheli. Per esempio, come ha spiegato lui stesso, li pone di fronte a varie ipotesi: "L'idea che il prezzo del greggio schizzi a 80 dollari il barile - cosa che a questa gente piacerebbe -, che vada a 35 dollari a barile, che sia a 15 dollari a barile". Gli alti dirigenti devono agire di conseguenza. II gioco è assistito da computer che riflettono le conseguenze di ogni decisione presa


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della speculazione finanziaria a ricordare minacciosamente all'austriaco che l'economia non avanza "sotto mercati socializzati. Dobbiamo lascia­re prosperare i mercati [finanziari, ossia le borse] e lasciar fallire chi non

ce la fa". Di fatto, nel loro gioco di scenario, gli attori hanno fatto l'esat­to contrario: non lasciar fallire gli speculatori che hanno sbagliato inve­stimenti, fornire loro altro denaro (liquidità) per continuare a puntare al casino globale, e far andare in malora "tutto il resto".

 

Questo episodio è cruciale nella storia che stiamo narrando. Perché il Council (CFR) non è un club di ricchi perditempo. È la fondazione pri­vata che dà forma alla politica estera Usa, secondo gli interessi del mon­do degli affari 3. È l'organo promotore della globalizzazione economica. È il luogo dove si prendono le decisioni supreme che la Casa Bianca as­sumerà come sue.

Da sempre il CFR formula le sue azioni sulla base di "scenari" previsio­nali. Il caso storico più celebre ebbe luogo nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Come oggi lo scenario del crack speculativo è stato intrapreso all'interno del "Financial Vulnerabilities Project" del CFR, in quell'anno fu il "War and Peace Studies Project" - l'apposito gruppo di studio creato dal CFR a - a valutare quali sarebbero state le con­seguenze, per il business americano, di una vittoria dell'Asse. Il gruppo di studio si pose alcune domande preliminari. Su quanta parte delle risorse e del territorio mondiale gli Usa dovevano avere il controllo

 

 

II CFR è stato fondato nel 1921 come `fondazione culturale" (esente da imposte se­condo il diritto americano) dalla famiglia Rockefeller, che ne è ancor oggi la principale finanziatrice. Dopo la Grande Guerra, in Usa era forte la tendenza all'isolazionismo. Il CFR fu creato per contrastarla: il grande business e le multinazionali volevano mante­nere "l'apertura dei mercati mondiali", e su di essi l'egemonia americana. ° Lo guidava Norman Davis, ambasciatore del presidente Roosevelt. Ne facevano parte il direttore del CFR Isaiah Bowman (che era anche docente della John Hopkins), l'av­vocato d'affari Allen Dulles (in seguito sarebbe diventato capo della CIA), Alvin Han­seri (docente di Economia politica ad Harvard), Jacob Viner (docente di Economia al­l'Università di Chicago), Hanson Baldwin, corrispondente militare per il New York Ti­mes, Whitney Shepardson, grande manager mltinazionale, Hamilton F. Armstrong (diret­tore di Foreign Affairs, la rivista del CFR): tutti personaggi di primo piano al loro tempo.


 

diretto, per mantenere il loro livello di potere e di egemonia? Quanto era autosufficiente il vasto spazio economico dominato dagli Usa (il cosid­detto "Western hemisfere", nord e sud America), confrontato con un'Eu­ropa egemonizzata dalla Germania?

Per rispondere a queste domande, il CFR lanciò il più grandioso studio econometrico mai tentato. Il mondo fu diviso in settori d'influenza poli­tica, e per ogni settore si calcolò la produzione e il commercio locali di materie prime e beni industriali. Fu introdotto nel quadro almeno il 95% di tutti gli scambi mondiali di materie prime e beni. Con queste, misu­rando le cifre dell'import e dell'export, si calcolò il grado di "autosufficienza" di ciascuna delle grandi regioni geo-politiche: il Western hemi­sphere (l'America e il suo giardino di casa), l'Impero Britannico, l'Euro­pa continentale, l'area del Pacifico. Il risultato fu assai sgradito ai signo­ri del CFR: "Si vide che l'autosufficienza dell'Europa continentale domi­nata dalla Germania sarebbe stata assai più alta di quella delle due Ame­riche insieme" 5. Nel Pacifico, stesso risultato: "il Giappone come poten­za espansiva minacciava i piani del CFR".

La minaccia, precisamente, consisteva in questo: l'Europa sotto dominio germanico, con l'integrazione della tecnologia tedesca e le risorse naturali russe, avrebbe costituito un grande spazio economico autosufficiente, os­sia "chiuso", che non avrebbe avuto bisogno di importazioni americane. Nell'Asia, l'integrazione fra la potenza industriale giapponese e l' immen­sa dotazione di manodopera cinese avrebbe creato un simile spazio autar­chico, economicamente autonomo, che non poteva essere forzato a com­prare nulla dagli Usa. Un rischio mortale per le multinazionali americane, che vivevano importando materie prime da quelle aree, ed esportandovi beni e capitali; e dunque, decise il CFR, anche per gli Usa come stato. Lo studio fu tenuto segreto. Fu presentato solo alla Casa Bianca.

Non ci fu bisogno di "incapacitare" il Presidente, allora. Il presidente Roosevelt e il suo entourage furono convinti da un rapporto del CFR

s Laurence Shoup & William Minter, "Shaping a new workd order: the Council on Forei­gn Relations blueprint for world hegemony", us Trilaterally, Boston, 1980, p. 136 e sag.


 

("Policy Recommmendation" dell'ottobre 1940) ad entrare in guerra a fianco dello spazio economico più importante, l'Impero Britannico. Già da mesi, un gruppo di pressione appositamente creato dal CFR, il Centu­ry Group, aveva indotto l'Amministrazione - ancora formalmente neu­trale - a inviare cinquanta incrociatori alla Gran Bretagna in cambio di future basi sul territorio imperiale inglese. In quei mesi, praticamente tutti i membri del privatissimo 'War and Peace Studies Project" furono assunti dal Dipartimento di Stato, al Pentagono e negli altri ministeri impegnati nello sforzo bellico. In qualche modo, fu la prima grande privatizzazione dello Stato: la politica mondiale americana fu presa direttamente in mano dagli studiosi a servizio del business. Come si vede, il CFR è il luogo dove si studia e si decide. È il governo­ombra privato degli Stati Uniti. Nel gennaio-luglio 2000, il "gioco di si­mulazione" su come affrontare l'imminente collasso della finanza specu­lativa è stato sicuramente preliminare a decisioni da fare poi adottare alla Federazione americana. È possibile che per quella causa - l'imminente crollo che minacciava l'egemonia globale Usa - il CFR abbia trovato una convergenza con gli interessi dell'apparato militare-industriale e con quelli del messianismo conquistatore ebraico: il conflitto di civiltà come via d'uscita dalla bancarotta finanziaria e dal rischio del tramonto dell’egemonia del business americano. Del resto, in quell'ordine di idee, il CFR è già entrato da tempo: il termine stesso di "conflitto di civiltà" vie­ne dalle sue stanze. È stato uno dei suoi membri più prestigiosi, Samuel Huntington 6, a teorizzare negli anni '90 la necessità - caduto il nemico sovietico - di trovare un nuovo avversario globale, capace di tenere alta

F Samuel Huntington, docente di Harvard, è stato membro del Consiglio di Sicurezza Nazionale Usa. Durante la guerra del Vietnam, fu lui a progettare il piano di "urbaniz­zazione forzata" della popolazione vietnamita delle campagne, per tagliare la base di so­stegno logistico dei vietcong. Nel 1978 Huntington, con Zbigniew Brzezinski (CFR) è stato uno dei registi dell'elezione di Jimmy Carter, presidente creato su misura dal Coun­cil on Foreign Relations. In quegli stessi anni, Huntington raccomandò l'istituzione in Usa di un sistema di "democrazia controllata", basata sull'idea che "una certa misuro di passività dell'opinione pubblica" era benefica per gli interessi del business.


 

 

la tensione dell'America, desta la sua capacità di innovazione tecnologi­co-militare, e giustificare la sua volontà egemonica. Huntington ha iden­tificato il nuovo nemico nell'Islam.

Dopo 1' 11 settembre, il CFR s'è affrettato a creare una " Independent Task Force on Atnerica's Response to Terrorism", per mostrare che intende partecipare al grande gioco, quello vero. Per ora, questa Task Force "con­siglia" il governo Bush su come condurre la campagna diplomatica in ausilio alla guerra all'Irak'.

Nel 1940, per convincere gli americani ad entrare in una guerra destinata a salvare il grande business, bisognò inventare la provocazione di Pearl Harbour I. È possibile che oggi il CFR abbia visto nella tragedia dell' 11

' Cfr. il documento: "Improving the US public diplomacy campaign in the war against terrorism", 6 novembre 2001, emesso dalla Task Force del CFR.

a Domenica 7 dicembre 1941, alle 7.53 del mattino, una forza aeronavale giapponese at­taccò a sorpresa la flotta americana all'ancora alle Hawaii, nel porto di Pearl Harbor. Nel­l'attacco 4500 americani morirono o furono feriti. Oggi è comprovato che l'attacco non fu affatto una sorpresa per il presidente in carica, Franklin D. Roosevelt. Lo ha dimostrato il ricercatore Robert Stinnett (Day of deceit, Simon & Schuster, New York, 2001) dopo sedi­ci anni di scavo negli archivi di stato. Fino ad oggi si sapeva che gli Usa avevano decifrato il codice diplomatico giapponese, il che avrebbe consentito alla Casa Bianca di sapere in anticipo che un attacco nipponico era imminente, genericamente "nel Pacifico". Stinnett ha scoperto che anche il codice segreto militare era noto agli americani; ed ha trovato negli archivi la trascrizione di 83 messaggi-radio criptati dell'ammiraglio Yamamoto alla sua flotta. Un messaggio del 25 novembre 1941 ordinava alla flotta nipponica di "avanzare nelle acque hawaiane e attaccare la forza navale principale degli Stati Uniti sí da inflig­gerle un colpo risortale" (D'altra parte, fra le decifrazioni del codice diplomatico giappo­nese è stata trovata una mappa di Pearl Harbor divisa in reticoli, e inviata segretamente alle forze nipponiche già il 9 ottobre 1941).

Yamamoto sapeva meglio di chiunque altro che l'attacco doveva essere "mortale", perché il tempo giocava contro il Giappone: la Casa Bianca aveva decretato un embargo petrolife­ro sì che il Giappone - privo di risorse naturali proprie - aveva riserva per soli sei mesi di guerra. Nel luglio del 1940 il Giappone offrì agli Usa, pur di vedersi levato l'embargo, di ritirarsi dalla Cína e di uscire dall'Asse; Roosevelt rispose congelando i beni nipponici in Usa, e nel settembre estese l'embargo al ferro e all'acciaio.

Che il presidente sperasse in un "provocazione" giapponese è mostrato dal fatto che fece spostare la flotta del Pacifico, dalle sue solite basi in California, nella Hawaii, quasi a facilitare il compito di Yamamoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

settembre la nuova provocazione necessaria per salvare i mercati specu­lativi. La "simulazione di crisi" del gennaio 2000 ha dimostrato che, in quell'ambiente, gli scrupoli morali non fanno parte del gioco. Milioni di persone devono morire. Il presidente deve essere "incapacitato".

Un colpo di Stato era nel conto? Un colpo di stato di tipo nuovo, inaudi­to, messo a segno senza allertare la consapevolezza della popolazione? Impossibile, direte voi. Vediamo.

L' ammiraglio James Richardson, comandante della flotta del Pacifico, protestò contro questo spostamento, consapevole che esso esponeva le sue navi a un maggior pericolo: Roosevelt lo sollevò dal comando. Inoltre i dati dell'intelligente, che segnalavano un imminente attacco a Pearl Harbor, non furono inviati alla flotta alla fonda nel porto hawaiano (le informazioni cruciali furono spedite mentre l'attacco era già in corso). Sessant'anni dopo l'attacco di Bin Laden alle Twin Towers: ancora una volta la più temibile potenza mondia­le viene attaccata "di sorpresa", e "senza provocazione"; migliaia di americani muoiono, e gli Usa hanno una ragione per cominciare una guerra di lunga durata. Attacchi "proditori" e suicidi, che non colpiscono mai potenze molto meno armate, diventano stranamente frequenti nella storia dell'America.



 

 

Capitolo 20
COLPO DI STATO: MANUALE PRATICO

È un libro non recente: Harvard University Press, 1968. Titolo "Colpo di Stato: manuale pratico" '. L'autore: Edward Luttwak. Il ben noto esper­to militare (spesso intervistato dalle tv italiane perché parla la nostra lin­gua) che è stato consigliere della sicurezza nazionale di Ronald Reagan. Ebreo, superconservatore, militarista. Con notori collegamenti con la CIA, amici al Pentagono, nel sistema militare-industriale, e ovviamente nel JINSA.

Ci proviamo qui a tradurre i passi cruciali di questo vecchio libro. Limi­tandoci a sottolineare in grassetto i concetti che possono essere entrati in gioco nelle menti di chi - se la nostra ipotesi è giusta - ha architettato la tragedia dell' 11 settembre.

Capitolo 1. Che cos'è un colpo di Stato?

"[ ... ] Il colpo di stato non deve essere necessariamente assistito dal­l'intervento delle masse né, in grado significativo, dalla forza di tipo militare. Il sostegno di queste forme di forza diretta rende senza dubbio più facile prendere il potere, ma sarebbe irrealistico pensare che siano disponibili agli autori del golpe.

"Se un colpo di Stato non fa uso delle masse o delle forze armate, quale strumento di potere si userà per prendere il controllo dello stato? La ri­sposta, in breve, è la seguente: il potere verrà dallo stato stesso".

' "Coup d'Etat: A practical handbook", di Edward Luttwak, 1968. Noi usiamo qui la riedizione economica del 1979.

 

 

"Un golpe consiste nell'infiltrare un segmento anche piccolo, ma cru­ciale, dell'apparato statale, che poi verrà usato per togliere al gover­no il controllo di tutto il resto" [il JINSA ha infiltrato il Pentagono pre­cisamente in questo modo] (p. 26-27)".

Capitolo 2. Quando è possibile un colpo di Stato?

Qui Luttwak elenca anzitutto le "pre-condizioni" necessarie:

"1. Le condizioni sociali ed economiche del paese preso a bersaglio de­vono essere tali, che la partecipazione politica è limitata a una piccola parte della popolazione [è il caso degli Usa, dove l'assenteismo eletto­rale è maggioritario, ndr.].

2. Lo stato preso a bersaglio deve essere sostanzialmente indipendente e l'influenza di potenze straniere nella sua politica interna devono essere li­mitate [gli Usa sono il solo stato rimasto a godere di queste condizioni]. 3. Lo stato preso di mira deve avere un centro politico. Se esistono diversi centri, essi devono essere identificabili ed essere strutturati politicamente, piuttosto che per etnie. Se lo stato è controllato da una unità di potere non organizzata politicamente [come il CFR, la rappresentanza del business] esso può essere messo a segno col suo consenso o la sua neutralità."

Già nella prefazione, Luttwak aveva sottolineato come essenziale il fatto che i golpisti possano contare sulla "assenza di una comunità politiciz­zata", sulla passiva indifferenza del pubblico. "Il dialogo tra governanti e governati [su cui si basa la legittimazione democratica] può aver luo­go solo se una parte abbastanza vasta della società è istruita, benestan­te e sicura di poter "parlare". Ma "senza una popolazione politicizzata, lo stato non è altro che una macchina. Allora il colpo di stato diventa at­tuabile poiché, come per ogni macchinario, si può prendere il controllo del tutto afferrando le leve cruciali". Ora, Luttwak identifica questa "macchina" nella burocrazia (p. 20-2 1):

"La crescita della burocrazia moderna ha due implicazioni che sono es­senziali per l'attuabilità del colpo di stato: una chiara distinzione fra il macchinismo statuale permanente e la leadership politica [che cambia], e il fatto che, come tutte le grandi organizzazioni, la burocrazia ha una struttura gerarchica con una catena di comando definita [...]".


 

"L'importanza di questa caratteristica sta nel fatto che se i burocrati sono collegati alla leadership politica, la presa del potere illegale deve avere la forma di una "rivoluzione di palazzo", ed essenzialmente consiste nel­

la manipolazione della persona del governante. Egli può essere obbli­gato ad accettare politiche e consiglieri, può essere ucciso o tenuto prigioniero 2, ma tutto ciò che accade nella rivoluzione di palazzo deve essere condotto solo "all'interno" e da "interni" (insiders) [In queste pa­gine, non abbiamo visto altro che insider all'opera attorno al debole Pre­sidente in carica]".

"La burocrazia statale divide il suo lavoro in chiare aree di competenza, che sono assegnate a dipartimenti diversi. All'interno di ogni dipartimen­to c'è una catena di comando accettata, e si devono seguire procedure standardizzate. Così una pratica o un ordine ricevuti vengono trattati in maniera stereotipata: se l'ordine viene dalla fonte d'autorità appropria­ta, al livello appropriato, l'ordine viene eseguito (...] L'apparato dello stato è dunque in qualche misura una "macchina" che si comporterà di norma in modo prevedibile e automatico".

"Il colpo di stato si attua traendo vantaggio da questo comportamento meccanico: durante il golpe, perché usa parti dell'apparato dello stato per appropriarsi il controllo delle leve; dopo, perché il valore delle leve dipende dal fatto che lo stato è una macchina".

Chi sono i congiurati migliori? Ecco come li descrive Luttwak (p. 35): "Tutto il potere, tutta la partecipazione, è nelle mani di una piccola elite istruita, benestante e sicura, e quindi radicalmente differente dalla vasta maggioranza dei suoi concittadini, praticamente una raz­za a parte. Le masse riconoscono questa realtà e accettano il monopo­lio del potere dell'elite, salvo che qualche esazione insopportabile porti a una rivolta disperata [...] Egualmente, le masse accetteranno un cambio di governo, sia legale o no. Dopo tutto, è un altro gruppo di "Lorsignori" che adesso ha il comando [È precisamente questo il caso

2 I1 sospetto è albeggiato nella mente di un famoso commentatore politico cattolico: Pa­trick Buchanan. In uno dei suoi editoriali, il 21 agosto 2001, si chiede: "Has Bush been mouse-trapped into war?", ossia "Bush è stato intrappolato a entrare in guerra?".


 

della società in Usa: una grande massa poco istruita, resa passiva dal bisogno, dovuta alla nuova flessibilità capitalista, di mantenere o trova­re il lavoro]".

"Così, dopo un colpo di stato [...] la maggioranza della popolazione non crederà né diffiderà [...] Questa mancanza di reazione è tutto ciò che il colpo di stato richiede al popolo per stare al potere". "Il livello più basso della burocrazia reagirà, o piuttosto mancherà di re­agire, alla stessa maniera e per le stesse ragioni: i "cgai' danno gli or­dini, possono promuovere o rimuovere e, soprattutto, sono la fonte del po­tere e del prestigio [...]. Dopo il golpe, la persona che siede al comando del distretto sarà sempre obbedita - sia o no la stessa persona -finché è in grado di pagare gli stipendi [...]".

"Per i burocrati del livello più alto, ufficiali delle forze armate e della poli­zia, il golpe è un misto di pericoli e di opportunità. [...] Per coloro, e sono i più, che non hanno troppo impegno ideologico, il golpe offrirà più oppor­tunità che pericoli. Possono accettare il golpe e, essendo collettivamente indispensabili, possono negoziare stipendi e posizioni migliori [...]". "Il colpo di stato non rappresenta una minaccia per la maggior parte del­la elite: la scelta dunque è tra i gravi pericoli dell'opposizione e la sal­vezza dell'inazione. Tutto ciò che si deve fare per sostenere il golpe è, semplicemente, fare nulla - e appunto questo si farà in genere".

"Così, a tutti i livelli, il più probabile sviluppo dopo un golpe è l'accettazione... Questa mancanza di reazione è la chiave per la vittoria dei golpisti".

Capitolo 3 - Strategia del colpo di stato (p. 58-59)

"Se fossimo rivoluzionari, con la volontà di distruggere il potere di certe forze politiche, il lungo e spesso sanguinoso processo di una rivoluzione sarebbe il mezzo. Ma il nostro scopo è, invece, molto diverso: noi voglia­mo prendere il potere all'interno del sistema presente, e riusciremo a stare al potere solo se noi integriamo uno "status quo" sostenuto dalle forze stesse che una rivoluzione vorrebbe distruggere. [...] Questo è un metodo più efficiente, e certo meno doloroso, che una rivoluzione classi­ca. [è la descrizione del perfetto golpe "neo-conservatore"]".


 

"Cercheremo di evitare ogni conflitto con le forze politiche; ma alcune di esse quasi certamente si opporranno a un golpe. Tuttavia questa op­posizione verrà meno quando avremo sostituito il nostro nuovo status quo a quello vecchio, e potremo imporlo grazie al nostro controllo della bu­rocrazia statale e alle forze di sicurezza. Noi dunque avremo un compito doppio: imporre il nostro controllo alla macchina dello stato e allo stes­so tempo usarla per imporre il nostro controllo al Paese nel suo com­plesso [...]".

"Purché l'esecuzione del golpe sia rapida, e finché noi siamo coperti dall'anonimato, nessuna fazione politica avrà il motivo, o l'opportuni­tà, di opporsi a noi".

Capitolo 4 - Pianificare il colpo di stato in Paesi sviluppati (p. 141) "Siano in un sistema bipartitico come nel mondo anglosassone, dove i partiti sono in realtà coalizioni di gruppi d'interesse, siano partiti basati su valori di classe o religione come nell'Europa continentale, i princi­pali partiti politici negli stati evoluti e democratici non presentano una minaccia diretta a un golpe. Anche se tali partiti hanno un soste­gno di massa durante le elezioni, essi non sono versati alle tecniche del­l'agitazione delle masse. La relativa stabilità della vita politica [demo­cratica] li ha privati dell'esperienza necessaria ad impiegare mezzi d'azione diretta, e tutta la loro operatività si riduce a vincere le periodi­che elezioni".

(p. 145)

"Benché qualche forma di confronto violento possa essere inevitabile, è essenziale evitare spargimenti di sangue, perché questo può avere riper­cussioni negative tra il personale della forze armate e della polizia" Capitolo 5 - Esecuzione del colpo di stato "Con una pianificazione accurata, non ci sarà bisogno alcuno che i gol­pisti abbiano un "quartier generale" strutturato nella fase attiva del col­po di stato: quando non c'è spazio per decisioni, non 'è necessità di de­cisori e dei loro apparati. Anzi, avere un quartier generale può presen­tare un grave svantaggio: è un bersaglio per l'opposizione, allo stes­so tempo vulnerabile e identificabile [...] Dobbiamo evitare ogni azio­


 

 

ne che renda chiara la natura della minaccia, riducendo così la confu­sione che regnerà nell'apparato difensivo del regime [...] I capi del col­po di stato saranno sparsi tra i vari gruppi". [Come si vede, Luttwak te­orizza un colpo di stato invisibile: i golpisti infiltrati parlano con la voce del governo legittimo, di cui si sono impadroniti. L'] l settembre, ricor­diamo, l'entourage immediato del presidente Bush pensò non a un atten­tato arabo, ma a un colpo di stato militare: per questo il presidente fu portato in luogo sicuro per 10 ore]. (p. 147)

"Nel periodo immediatamente seguente al colpo di stato, essi [gli alti burocrati e militari] si sentiranno probabilmente persone isolate, la cui carriera, e anche la cui vita, possono essere in pericolo. Questo senso di insicurezza può precipitare in due reazioni estreme: o costoro escono allo scoperto per proclamare la loro lealtà ai leader del colpo di stato, o cer­cheranno di fomentare l'opposizione contro di noi. Entrambe le reazioni sono indesiderabili per noi. Proclamazioni di lealtà saranno di solito inu­tili, poiché fatte da elementi che hanno appena abbandonato i loro pre­cedenti, e più legittimi, comandanti; il coagularsi di un'opposizione sarà sempre pericoloso e a volte disastroso. La nostra azione verso i quadri militari e burocratici mirerà dunque a ridurre il loro senso di instabilità:

noi dovremo stabilire un contatto diretto con gli ufficiali e i funzio­nari di rango più elevato, per trasferire loro un'idea principale, in modo forte e convincente: che il golpe non minaccia la loro posizione nella gerarchia e che tra gli scopi del golpe non c'è la riduzione delle strutture militari o amministrative esistenti" [questo pare essere ap­punto il compito svolto dal JINSA]. (p. 165)

"..Le masse non hanno né le armi dell'esercito né le strutture ammini­strative della burocrazia, ma il loro atteggiamento verso il nuovo regime dopo il golpe sarà, alla lunga, decisivo. Il nostro compito immediato sarà di imporre l'ordine pubblico, ma il nostro obbiettivo di lungo termine sarà di guadagnare l'accettazione delle masse, sì che l'uso della coerci­zione fisica non sia necessario [...] Il nostro strumento in questa dire­zione sarà il controllo dei mezzi di comunicazione di massa [...] Le trasmissioni radio e televisive avranno lo scopo non già di fornire in­-


 

formazioni sulla situazione, bensì di controllarne gli sviluppo grazie al nostro monopolio sui media" [È proprio quello che fanno i mass-me­dia americani dall'U settembre in poi].

"[L'azione dei media] sarà mirata a convogliare la realtà e la forza del colpo, anziché giustificarlo [il colpo emotivo della caduta del World Tra­de Center, trasmesso con piena "realtà" e "forza" dalla CNN] [...] Avre­mo frammentato l'opposizione, sicché ogni individuo che si oppone do­vrà operare in isolamento. In queste circostanze, le notizie di ogni pic­cola resistenza contro di noi agiscono come un potente stimolante ad ul­teriori resistenze, perché riducono quel senso di isolamento. Quindi dob­biamo fare ogni sforzo per sopprimere quel genere di notizie. Se qual­che resistenza compare [...] dobbiamo sottolineare con forza che essa viene da "isolati" ostinati individui, mal informati o disonesti, che non sono affiliati a nessun gruppo o partito importante. Il lavoro co­stante sul tema dell'isolamento, e l'enfasi posta sul fatto che la legge è stata ristabilita, faranno apparire la resistenza inutile e pericolosa".

Sorgerà, conclude Luttwak, "l'inevitabile sospetto che il colpo di stato è opera delle macchinazioni della Compagnia [qui Luttwak, significa­tivamente, usa il termine con cui gli agenti della CIA indicano la CIA stessa]. Esso può essere stornato attaccandolo violentemente [...] e l'attacco sarà tanto più violento quanto più questi sospetti sono giu­stificati. [...] Faremo uso di una selezione adatta di frasi sgradevoli

[per esempio: anti-americanismo? Anti-semitismo?]; anche se il loro si­gnificato è stato oscurato dal loro uso costante e deliberato, esse resta­no utili come indicatori del nostro impeccabile nazionalismo." (p. 167­

170)

A me sembra che queste righe descrivano, con spaventosa precisione, ciò che è avvenuto in Usa dall' 11 settembre in poi.



 

 

Capitolo 21
I BUONI SERVI NOACHICI

 

Il senatore Gary Bauer, che è stato candidato presidenziale repubblicano, non vuole alcun "processo di pace" in Israele: "La Bibbia è chiara: la ter­ra è quella chiamata terra dell'alleanza, e Dio ha fatto il patto con gli ebrei che quella terra sarebbe stata loro per sempre" '. Il senatore James Infohe, repubblicano dell'Oklahoma, ha spiegato così l'attacco terrorista dell' 11 settembre: "Una delle ragioni per cui è stata aperta la porta spirituale al­l'attacco contro gli Stati Uniti d'America è che il nostro governo esige da­gli israeliani di non esercitare la rappresaglia contro i loro terroristi". L'America è piena di personaggi così. A parlare per bocca di Bauer ed Infohe è l'escatologia da supermarket dei fondamentalisti protestanti americani; i milioni che attendono The End Times, gli ultimi giorni, e il ritorno di Cristo e il "rapimento in cielo" (rapture) dei giusti. E che, per accelerare il ritorno di Cristo, ritengono necessario favorire gli estremisti in Israele. È la destra religiosa dei tele-predicatori, una delle grandi for­ze della politica americana.

Questo fenomeno ha radici antiche nel mondo anglosassone. Vi si mesco­lano la mistica imperiale che indusse gli anglosassoni a credersi il "nuo­vo Israele" (una tendenza che si fa' risalire al venerabile Beda, e che sboc­ca nell'ideologia balzana dei British Israelites) 2 il "libero esame" della

 

' Citato da Doug Bandow, "Crackpot theology inakes bad foreign policy" ("La teologia da "amati" fa' una cattiva politica estera"), 27 maggio 2002. In TownHall.com. Ban­dow è un editorialista conservatore.

Z Cfr. il capitolo "British Israelites, la dottrina occulta" nel mio "Complotti I', Milano, 1995, p. 87 e segg.

 


 

Bibbia con le sue letture letterali e sempliciste, e le più fumose credenze nelle "profezie"; il tutto confezionato nella civic religion, che attribuisce all'America un compito provvidenziale nel mondo, quello dell"`impero del bene" in lotta escatologica contro 1-asse del male". L'Apocalisse come soap-opera.

Già nel 1621 un sir Henry Finch, avvocato e membro del parlamento bri­tannico, scrisse un appello al governo di "sua maestà" perché favorisse l'insediamento degli ebrei in Palestina, "onde compiere le profezie bibli­che". Nel tardo Settecento, i torbidi stati d'animo che nell'Europa conti­nentale produssero la Rivoluzione Francese suscitarono, nelle plebi ingle­si e nei coloni americani, effervescenze utopico-religiose: la setta ameri­cana dei Milleriti (oggi detti Avventisti dei Settimo Giorno) ne fu un esempio. Un altro fu il potente movimento creato da John Nelson Darby (1800-1882), un pastore anglicano rinnegato che percorse l'America in­terpretando le profezie bibliche come predizioni letterali. I veri credenti sarebbero stati "rapiti" dalla storia e dalla terra - così Darby leggeva il passo della prima lettera ai Tessalonicesi, 4:16, 5:1 - prima dei tempi del­la tribolazione finale; la tribolazione culminerà nella battaglia di Arma­geddon, valle vicina a Gerusalemme; gli ebrei saranno restaurati nella loro potenza, secondo il patto di Dio, come strumento primario della sto­ria.

Questo insieme di credenze - "dispensazionalismo", "premillenarismo" - costituisce, negli Stati Uniti, la forma "dominante"' di cristianesimo. Migliaia di pastori e milioni di fedeli si sono formati sulla cosiddetta "Bibbia Scofeld" (1909) le cui note interpretano i passi scritturali in ter­mini di "profezia" escatologica. Secondo lo storico dei movimenti reli­giosi Timoty Weber, attraverso quelle letture si finisce per concepire "il processo storico come una guerra infinita tra bene e male, il cui corso Dio ha concesso al diavolo ... La sola speranza della storia consiste nella sua distruzione".

' Così Donald Wagner, "Evangelicals and Israel: theological roots of a political allian­ce" in The Christian Century, 4 novembre 1998, p.1020-1026. Donald Wagner dirige il Centro Studi Mediorientali alla North Park University di Chicago.


 

Generazioni di americani hanno scoperto la fede attraverso il vecchie best-seller del millenarista William E. Blackstone, "Jesus is coming) (1882). Fatto significativo, Blackstone è anche l'autore del primo appello pubblico - diretto all'allora presidente Benjamin Harrison - per sostenere il ritorno degli ebrei in Palestina. L'appello, apparso su infiniti giornali in quella che fu una delle prime massicce campagne di stampa, era firmato anche da John D. Rockefeller, da J.P. Morgan e da altri grandi finanzieri.

Lo stesso fenomeno, in quegli anni, si produceva in Inghilterra. Lori Shaftesbury volle trasformare in programma politico l'escatologia millenarista di Darby. Cominciava il lungo processo che avrebbe portato alla Dichiarazione Balfour (1917), l'impegno dell'impero britannico a con segnare la "Terrasanta" agli ebrei come "focolare giudaico"; tutti gli at tori di questa vicenda erano intrisi di millenarismo protestante. Lo confessò sir Oliver Locker-Sampson. Interrogato sul perché Londra sostenesse con tanta ostinazione il sionismo, rispose: "Winston [Churchill], Loye George, Balfour ed io siamo stati allevati come protestanti integrali, credenti nell'avvento di un nuovo salvatore quando la Palestina ritornern agli ebrei".

Questa teologia d'accatto non ha mai cessato di tradursi in una politici estera allarmante, passando in eredità dai grandi mistici massoni britannici ai telepredicatori americani.

Quando Israele occupò Gerusalemme nella guerra-lampo del 1967 l'evangelista americano Nelson Bell, direttore di Christianity Today suocero del telepredicatore Bill Graham) proclamò: "Il fatto ci elettrizzi come studiosi della Bibbia, e rinnova in noi la fede che la Bibbia è vali da ed esatta". Intanto l'America profonda era inondata da una profluvi di libri, film e special televisivi sulla prossima fine dei tempi. L'Unione Sovietica, i suoi alleati e il Papa vi facevano la parte dell'Anticristo L'escatologia, in Usa, è anche un affare lucroso. Hal Lindsay (un altri tele-predicatore) ha venduto 25 milioni di copie del suo volume profetico, "The late great planet earth" (Il fu grande pianeta Terra), da cui sono stati ricavati anche due film; inoltre, Lindsay ha aperto un'agenzia di con-


 

sulenza d'affari (la capacità di predizioni può essere utile al business) che ha fra i suoi clienti diversi membri del Congresso.

Mentre le tradizionali denominazioni protestanti vedono i fedeli declina­re (non meno della Chiesa cattolica), in Usa sono i fondamentalisti mil­lenaristi, gli evangelisti carismatici, i sionisti cristiani, a crescere tumul­tuosamente. Chiesa e protestantesimo istituzionale avevano guardato alla conquista di Gerusalemme da parte d'Israele, e all'oppressione dei pale­stinesi, con ostilità e sospetto. Il sostegno degli Stati Uniti alla causa ebraica era in pericolo: per questo, le varie lobbie ebraiche cominciaro­no a prendere contatti con le masse fondamentaliste e millenariste, pri­ma tenute a distanza dalla comunità ebraica perché razziste, bianche, troppo - diremmo - nazionalpopolarì. "La comunità evangelica è il mag­gior gruppo che nutre sentimenti filo-ebraici in questo paese, e quello che cresce più rapidamente".

Nel 1976, l'elezione di Jimmy Carter (catechista della domenica nelle scuole della Southern Baptist Church) mostrò che il movimento apoca­littico protestante era divenuto una forza politica ragguardevole. Ma Car­ter deluse subito. E non solo perché, nel marzo 1977, suggerì che anche i palestinesi avevano "il diritto a una patria". Il fatto è che Carter (creatu­ra del Council on Foreign Relations) era democratico, ossia "di sinistra" nella limitata accezione americana. E l'America andava a destra.

Ci andavano, soprattutto, gli ebrei americani. La comunità, radical-chic, progressista e socialisteggiante finché il sionismo fu rappresentato in Isra­ele dal partito laborista (fondato da transfughi menscevichi della Russia), cambiò orientamento appena (nel maggio 1977) in Israele andò al potere Menachem Begin, del Likud, il partito neofascista. Menachem Begin era stato in gioventù un terrorista rabbinico, della banda Stern. Il Likud ospi­tava già allora falchi militari contrari ad ogni concessione ai palestinesi (Rafael Eytan e Ariel Sharon), aveva il sostegno dei "coloni" fondamen­talisti che andavano a formare insediamenti armati nel territorio palesti­nese ("la terra santa non si cede"), e quello di numerosi partitini "reli­giosi", capeggiati da rabbini, piccoli ma potenti perché ricchi delle offer­te che la "diaspora" manda soprattutto a loro.


 

Secondo Donald Wagner, fu direttamente il Likud a determinare il tramonto di Carter. "La strategia del Likud fu  semplice: sottrasse a Carter la sii base politica, i fondamentalisti evangelici, e portò i "cristiani  per Israele all'opposizione, sai base neo-conservatrice, contro la Conferenza di Pace ( in Medio Oriente proposta dall'Onu". In tutti i maggiori giornali statunitensi apparvero avvisi a piena pagina che dicevano: "per i cristiani evangelici è venuto il tempo di mostrare la loro fede nella profezia biblica e n, diritto divino di Israele alla sua terra [...] Noi vediamo con il più gran allarme ogni tentativo di insediare nella terra ebraica un'altra nazione" Le pagine pubblicitarie erano pagate da una fondazione evangelica, Jerusalem Institute for Holy Land Studies, e da personaggi come il cantante Pat Boone e il "teologo" millenarista di Dallas John Walvoords. Fu il primo segnale pubblico della strana alleanza saldatasi tra i protestanti reazionari americani e il Likud. "La vera forza degli ebrei in questo paese viene dagli evangelici", commentò felice Jerry Strober, dell'America Jewish Committee, che aveva coordinato la campagna.

È un'alleanza piena di tensione, che non cessa di creare imbarazzo ali due parti. I due gruppi concordano su certi punti apocalittici - come "segno" del ritorno degli ebrei in "Terrasanta" - ma per motivi opposti: fondamentalisti cristiani credono che con ciò Israele accelera la seconda venuta del Cristo e la propria rovina, gli ebrei vi vedono l'intronamento di Israele come messia-redentore di se stesso, e l'inizio del "Regno" mondiale giudaico. In un incontro fra ebrei e millenaristi, a Bailey Smith, presidente della Southern Baptis Convention, scappò la frase: "Dio no ascolta le preghiere dei giudei", e dovette scusarsene con un viaggi d'espiazione in Israele. E in un articolo recente, un editorialista americano neo-conservatore lamentava che "nella comunità ebraica" ci siano gruppi che nutrono risentimento e diffidenza "contro i migliori amici t Israele" (gli evangelici), e si oppongono a loro semplici richieste, come la recita di una preghiera (cristiana) nelle scuole a.

° David Klinghoffer, "Religius war - U.S. jewish groups and their arti-christian host lity", 6 settembre 2002, su National Review Online. Klinghoffer è autore di un libro, Lord wil gather me in" ("1l Signore mi radunerà nel Suo gregge") che è uno dei testi foi damentali della ideologia della "rapture".


 

Ciò non impedisce una proficua collaborazione politica fra le due entità. Menachem Begin strinse specialissime relazioni con Jerry Falwell, un telepredicatore miliardario molto ascoltato in casa Reagan. Il rapporto è così utile, che Israele ha donato a Falwell, nel 1979, un aereo privato (un Learjet), e nel 1981 lo ha insignito del prestigioso "Premio Jabotinski". Così, quando Israele bombardò la centrale atomica irakena di Osirak, Begin chiamò al telefono, prima di Reagan, Falwell. Gli chiese di "spie­gare al pubblico cristiano le ragioni del bombardamento" (il telepredi­catore eseguì). Quando Israele invase il Libano nel 1982, Begin spedì a Washington Sharon, allora suo ministro della Difesa, per rabbonire l'ir­ritatissimo presidente Reagan, e ancora una volta fu richiesto - con la pubblicazione di pubblicità "profetiche" a piena pagina sui giornali - l'aiuto dei fondamentalisti protestanti. Ancora una volta, Falwell colla­borò. Del resto, in un discorso a Miami (marzo 1985) davanti all assemblea rabbinica", il telepredicatore s'è vantato di "mobilitare 70 milioni di cristiani conservatori per Israele e contro l'antisemitismo".

Cifra non lontana dalla realtà, se ai seguaci di Falwell si aggiungono i fe­deli degli evangelisti più famosi del piccolo schermo, Jimmy Swaggart, Pat Robertson, Tammy Bakker e Tim LeHaye.

La Casa Bianca di Reagan ha accolto in incontri regolari questi predica­tori, insieme alle organizzazioni della lobby (Americans for a Safe Israel e AIPAC). Ronald Reagan, attento a questo tipo di elettorato, si atteggia­va a fondamentalista egli stesso. "lo rileggo i vostri profeti del Vecchio Testamento e i segni premonitori di Armageddon, e mi sorprendo a chie­dermi se la nostra è la generazione che vedrà tutto questo", confidò una volta a Tom Dine, alto dirigente dell'AIPAC. Il Jerusalem Post e l'Asso­ciated Press furono lieti di diffondere questa frase.

Benjamin Netanyhau, allora, ricopriva l'incarico di ambasciatore di Isra­ele all'Onu. Residente a New York, dunque, partecipava regolarmente ai "breakfast di preghiera per Israele" tenuti dalla Destra cristiana ameri­cana. Quando fu eletto premier nel '96, era già una vecchia conoscenza dei fondamentalisti Usa. Li ringraziò portando 17 leader protestanti in viaggio-premio in "Terra Santa"; al termine del viaggio, i leader cristia-­


 

ni firmarono un appello perché "mai e poi mai l'America abbandoni Israe­le". Nel dicembre, le chiese maggiori (fra cui la cattolica) lanciarono un appello per la pace in Medio Oriente, in cui parlarono di una "Gerusa­lemme condivisa". I fondamentalisti risposero con un'intera pagina sul New York Times dal titolo "Appello dei cristiani per una Gerusalemme indivisa" (10 aprile 1997). Fra varie citazioni del Levitico, della Genesi, del Deuteronomio volte a dimostrare "che Gerusalemme è da tremila anni la capitale spirituale e politica dei soli ebrei", l'annuncio esortava il go­verno Usa a "non premere su Israele perché faccia concessioni sullo sta­tus dei palestinesi": le precise posizioni del Likud. Fra questi fondamentalisti, la lobby ebraica raccoglie anche denaro. Mol­to denaro. Il rabbino Yechiel Eckstein di Chicago ha raccolto oltre 5 mi­lioni di dollari dalla International Fellowship of Christians and Jews, e John Hagee, pastore a San Antonio (Texas), ha racimolato un milione di dollari, allo scopo di "sostenere l'insediamento degli ebrei sovietici che tornano in Israele". Hagee ha spiegato: "il ritorno degli ebrei sovietici è

il compimento della profezia biblica".

Forte di questo massiccio sostegno, la causa giudaica in Usa è indiscuti­bile. Ma i fondamentalisti americani sono stati usati anche per contrasta­re le pressioni europee su Israele. Nel 1997, l'Europa fece pressioni su Netanyahu per negoziare con Arafat. La risposta della lobby fu di mon­tare una campagna di disinformazione con il sostegno dei fondamentali­sti protestanti in Israele. Il 22 ottobre Radio Israele (Kol Israel) lanciò l'al­larme: 1-autorità palestinese" perseguita i cristiani nei "territori". Il Jerusalem Post riprese le notizia, assicurando: "cimiteri cristiani sono sta­ti devastati, nei monasteri sono state fatte irruzioni, l'OLP ha preso il controllo delle chiese". Il Washington Times si chiese perché gli Stati Uniti avessero donato 300 milioni di dollari a un potere (quello di Ara­fat) che stava provocando un esodo di cristiani dalla "Terra Santa". I milioni di fondamentalisti americani si accesero di sdegno. Invano Han­na Nasser, sindaco palestinese di Betlemme e cristiano, dichiarò: "le no­stre chiese godono di completa libertà". Invano il pastore della chiesa lu­terana di Betlemme, Mitri Raheb, assicurò che "qui c'è molta più sicu-­


 

 

 

rezza oggi che sotto l'occupazione israeliana". Gli evangelici americani, mandarono un gruppo d'indagine di 14 membri in "Terra Santa" per in­vestigare sulle "persecuzioni". Scoprirono - parole loro - "imbarazzanti motivazioni propagandistiche dietro le asserite persecuzioni". Più preci­samente, che si trattava di invenzioni fabbricate da David Bar Illan, por­tavoce di Netanyahu, e da un'entità di fondamentalisti, la International Christian Embassy di Gerusalemme. La questione, come tutte le altre ri­guardanti la propaganda giudaica, è stata da allora insabbiata.


 

Capitolo 22
HAMAS PSICHIATRICO

 

"1 palestinesi non sono il primo popolo che il popolo ebreo ha fatto impazzire; abbiamo visto che cosa è successo con i tedeschi"

(Abraham B. Yehoshua, scrittore israe­lita)

 

 

Devo tutte le rivelazioni che scriverò qui a Joseph Brewda, un giornalista americano ed ebreo, che mi onora della sua amicizia. Joseph è convinto che i terroristi suicidi, sia i palestinesi che si fanno saltare in Israele, sia (se ci sono mai stati) quelli sugli aerei dell' 11 settembre, possano essere `fabbricati" '.

Il racconto di Joseph prende le mosse dal Tavistick Institute di Londra: una strana clinica per malati mentali, un centro di ricerche psichiatriche di fama mondiale che - stranamente - è gestito da alti ufficiali delle for­ze armate britanniche. Fondato nel 1920 sotto la direzione del generale di brigata e psichiatra dr. John Rawlings, il Tavistock nacque per occu­parsi dei soldati traumatizzati dalla "Grande Guerra". Gli psichiatri e psi­canalisti del generale scoprirono presto che questi individui erano acuta­mente suggestionabili; e che lo stesso effetto poteva essere ottenuto at­traverso interrogatori brutali e torture. Essi misero a punto tecniche del controllo comportamentale, che furono praticate durante il secondo con­flitto mondiale, come parte di vasti programmi di "guerra psicologica". Nel 1945, in un suo libro ("The shaping of psichiatry by war"), il gene­rale Rees, un altro degli scienziati del Tavistock, propose che metodi ana­loghi a quelli sperimentati in guerra, potevano attuare anche il controllo sociale in intere società o gruppi, in tempo di pace. "Se proponiamo di

' Joseph Brewda, "Israeli psichiatrists and Hamas terrorists: case study on how terro­rists are manufactured" (inedito, 1 1 ottobre 2001).

 


 

 

 

uscire all'aperto"; scriveva Rees, "e di aggredire i problemi sociali e na­zionali dei nostri giorni, allora abbiamo bisogno di "truppe speciali " psi­chiatriche, e queste non possono essere le equipes psichiatriche stanziali nelle istituzioni. Dobbiamo avere gruppi di psichiatri selezionati e ben addestrati che si muovano sul territorio e prendano contatto con la si­tuazione locale nella sua area particolare".

Dal 1947 il generale Rees fece carriera nell'apparato dell'Onu, dove creò la Federazione Mondiale della Salute Mentale; collaborò con sir Julian Huxley, allora capo dell'Unesco; e, secondo Brewda, entrambi elabora­rono un progetto per "la selezione dei quadri" nelle colonie dell'impero britannico, da addestrare alla futura "indipendenza". In Africa e in Asia, però, sorsero movimenti di liberazione incontrollabili da Londra. Gli spe­cialisti del Tavistock perciò cominciarono da allora a creare movimenti "rivali": il primo esperimento avvenne in Kenia. Nei campi di prigionia, taluni detenuti sarebbero selezionati e "preparati" con metodi psicologi­ci traumatici a formare frazioni della rivolta Mau Mau. L'idea era di in­filtrare il movimento di liberazione keniota con "gruppi rivali", che li pe­netrassero e frazionassero, creando lotte intestine. I "rivali" dovevano usare metodi terroristici feroci, per screditare i movimenti.

A questo scopo, la Federazione Mondiale della Salute Mentale guidata da Rees lanciò nel 1949-50 un ampio studio sui profili psicologici di vari paesi. Il programma si chiamava: "Tensione mondiale: la psicopatologia delle relazioni internazionali". Furono studiate le reazioni, le suscettibi­lità psicologiche di diversi gruppi etnici, secondo Brewda "per poterli me­glio controllare". In questo quadro, lo studio più approfondito fu intra­preso sugli ebrei: dapprima sui sopravvissuti alle persecuzioni naziste che erano riparati in Israele. Secondo la tattica suggerita da Rees, psichiatri

"ben addestrati" furono mandati "sul territorio". Nacque a Gerusalemme la Società per l'Igiene Mentale in Israele. La guidava il dottor Abraham Weinberg, un uomo del Tavistock.

Prevedibilmente, Weinberg diagnosticò, nella psicodinamica ebraica, la leva su cui poteva agire la psichiatria di guerra: la convinzione di essere il "popolo eletto", diverso da ogni altro. Il fatto che nei secoli gli ebrei


 

siano stati fatti sentire diversi dagli altri popoli, non ha fatto che rinfor­zare questo carattere, diceva il dottore. E ha creato una "personalità ebraica" intimorita e diffidente del prossimo. Di fronte alla persecuzio­ne nazista, la popolazione ebraica ha reagito in maggioranza rinnovando la fedeltà alla propria identità etnica e alla "missione degli ebrei" nel mondo: la sofferenza subita era parte di questa "missione", e la creazio­ne dello stato d'Israele, il ritorno alla terra promessa dopo duemila anni, era il compenso per questa sofferenza. Oggi (scriveva Weinberg nel 1948) per la prima volta in millenni, possibile creare una vera personalità ebraica, fondata sulla sofferenza del genocidio e sull'ambiente control­lato di Israele". Di fatto, secondo Brewda, questa diagnosi giustifica (e provoca) la riduzione dell'israeliano d'oggi a membro di un culto del san­gue e del suolo; il fatto che Israele pratichi in "Terra Santa" una politica di segregazione e di igiene razziale nei confronti degli arabi, sarebbe la prova del successo del Tavistock 2.

Nello stesso tempo, il Tavistock conduceva lo stesso tipo di studi sugli arabi, attraverso un affiliato "Istituto di Igiene Mentale" con sede al Cai­ro; queste ricerche finirono per convergere con studi analoghi, che gli spe­cialisti israeliani di guerra psicologica stavano conducendo per scopi mi­litari. I risultati di queste indagini si ritrovano nell'opera monumentale di Raphael Patai (uno degli specialisti israeliani in profili psicologici), "The arab mind" 3. Patai scopre nella "mentalità araba" il punto debole, che la rende vulnerabile alla manipolazione: la sua tendenza a confondere, specie sotto stress, "realtà e retorica". L'arabo tipico "vuole apparire piuttosto eloquente che profondo, e la sobrietà è di rado un carattere ap­prezzato nei leader". Lo dimostra, secondo lo studioso, il fatto che dei veri e propri pazzoidi (come il libico Gheddafi) possano godere di auten­tica popolarità.

2 Su questo punto tendo a divergere con l'amico Brewda. Come mostra l'ideologia dei Lubavitcher, l'idea di "separazione" è un rischio permanente interno alla stessa religio­ne ebraica.

' Raphael Patai, The arab mind, New York, 1976.


 

 

È, come si vede, uno studio di "profiling", ben noto ai servizi segreti più sofisticati: un gruppo etnico viene "profilato psicologicamente" dal ne­mico, per farlo agire - a sua insaputa - a vantaggio del nemico stesso. Quest'arte orribile non viene nemmeno nascosta. Sul numero del 22 giu­gno 2001 della rivista International Bulletin of Political Psychology è apparso un dotto articolo col seguente titolo: "L'utilità della ricerca psi­cologica per accendere e sedare la violenza: gli "scopritori" di terrori­sti e la selezione e gestione di giovani terroristi" °. Ne è autore il dottor Jerrold Post, fondatore del Bulletin, che per 21 anni è stato a capo, alla Cia, del centro "Analysis of Personality and Political Behavior". In que­sta veste, Post ha scritto infiniti "profili psicologici" di capi di sette e di gruppi terroristi: ha studiato fra gli altri Bin Laden, Saddam Hussein e la psicologia dei dirottatori di aerei. Dall' 11 settembre, viene spesso inter­vistato dai media americani.

E in Palestina? L'amico Joseph Brewda ci segnala la presenza, nella stri­scia di Gaza, del "Gaza Community Mental Health Program" (GCMHP), che è di fatto l'unico presidio psichiatrico nella zona occupata dagli isra­eliani. Il centro è stato creato da un ramo del Tavistock in collaborazione con la Israeli Psiychoanalitic Association, ed è finanziato dai governi americano e britannico. Ufficialmente, ha lo scopo di "affrontare i pro­blemi mentali dei bambini traumatizzati nell'Intifada [del 1987] e riabi­litare i prigionieri politici palestinesi vittime di torture". Difatti, "la tortura è una pratica corrente da parte dei militari israelia­ni", scrive Brewda. "Le leggi d'Israele consentono ufficialmente tratta­menti come la deprivazione del sonno, prolungate sedute al buio, l'ob­bligo a mantenere a lungo forzate posizioni corporee, "confinamento" (in spazi-scatola senza l'uso della toilette), esposizione a temperature estre­me. Ci sono medici israeliani che esaminano i prigionieri palestinesi e indicano quali di queste torture possono essere applicate, dato lo stato di salute e le condizioni fisiche del detenuto".

1 'Terrorist talent scouts and the selection and management of youthfull terrorists".


 

Almeno centomila palestinesi di Gaza, il 10% della popolazione, è stato prima o poi detenuto nelle carceri israeliane e sottoposto all'una o all'al­tra tortura; molte di queste vittime sono bambini, dato che la legge israe­liana considera adulto chi abbia più di 12 anni. Secondo uno studio con­dotto dallo stesso "Gaza Mental Health Program", l'85% dei 1300 bam­bini intervistati hanno assistito a irruzioni della polizia o dei soldati nelle loro case, il 42% è stato picchiato, il 55% ha visto picchiare il proprio padre. II 19% di questi bambini sono stati essi stessi detenuti. Di conse­guenza,.molti di loro manifestano segni di deterioramento mentale: mu­tismo, insonnia, scoppi d'ira e di violenza immotivati verso i propri fa­miliari.

Il "Gaza Community Mental Health Program" fornisce a queste vittime un'assistenza, che si configura come "terapia di gruppo". Una ventina di specialisti conducono queste terapie di gruppo "sul territorio", fra i tor­turati da Israele insieme alle loro famiglie. Chi ha addestrato e preparato questi specialisti? Il Dipartimento di Psicologia dell'Università di Tel Aviv, con l'approvazione formale del governo israeliano e con fondi de­gli Stati Uniti. La stessa università di Tel Aviv addestra un gruppo di ri­cerca psicologica sul campo, il quale produce rapporti dai titoli signifi­cativi: "Esperienza della tortura e stress post-traumatico tra i prigionie­ri politici palestinesi", oppure "Predizione del riassetto psichico tra i bambini palestinesi dopo la violenza politica". Insomma, la "ricerca" mette i "ricercatori" a diretto contatto con i futuri, potenziali quadri del terrorismo suicida.

L'intenzione è davvero quella di curarli? Se ne può dubitare: il direttore del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Tel Aviv, il dottor Ariel Merari, ha fondato e diretto, per l'esercito israeliano (Israeli Defense For­ce) I-Unità di Gestione di Crisi", il gruppo cioè che tratta con i rapitori, in caso di presa di ostaggi. Il dottor Merari è uno psichiatra militare, esperto di "profiling" del nemico. Fra l'altro, è stato il primo israeliano, dopo 1' I 1 settembre, a dichiarare che l'attacco su New York era stato di­retto da Bin Laden. Secondo Brewda, tutta l'operazione "di salute men­tale" ha lo scopo di selezionare e identificare, tra le vittime psicologica-­


 

mente destabilizzate dalle torture d'Israele, quelli che possono diventare pericolosi terroristi.

Gli indizi che porta sono allarmanti. Anzitutto uno: il direttore del GCMHP, pagato dagli americani e sotto controllo degli israeliani, è uno psichiatra palestinese, dottor Eyad Sarraj, che è anche un esponente di alto livello di Hamas. Inoltre, Sarray non nasconde, anzi esalta, la sua ammirazione per i terroristi suicidi. Come ha scritto in un articolo del 4 agosto 1997, "Capire il terrorismo palestinese", "in Palestina, la cosa stupefacente non è che accadano atti di terrorismo suicida, ma che ac­cadano così raramente". Il dottor Sarraj è convinto (come l'Istituto Tavi­stock di Londra) che la violenza è il solo mezzo con cui gli adolescenti disturbati della Palestina possano recuperare la salute mentale: il pro­cesso che esteriorizza la coscienza di schiavo che è stata introiettata nel bambino [palestinese dalla violenza israeliana] e ne forma ormai l'inti­mità personale profonda. Con questi atti, i bambini riaffermano se stessi ed esercitano il diritto a una vita libera e migliore". Ci si può chiedere come mai Israele, che controlla il centro di salute mentale di Gaza come abbiamo visto, e ne addestra gli specialisti, lasci al suo posto questo individuo. Forse la risposta, suggerisce Brewda, è nel fatto che Sarraj condanna apertamente Arafat e definisce i suoi ten­tativi di continuare il processo di pace come tradimento. "Siamo diven­tati semplicemente gli schiavi del nemico. In nome della pace, siamo stati umiliati. Arrestati e persino torturati dalle forze dell'autorità pa­lestinese per proteggere la pace. La nostra autorità si è scatenata con­tro di noi per piacere a Netanyahu. I nostri governanti girano su gros­se auto e si costruiscono grosse ville ... ora capite perché siamo diven­tati assassini suicidi?".

Nel 1997, cose simili furono ripetute in una conferenza, tenuta all'inter­no del GCMHP, da Abdel Aziz Rantisi, il portavoce di Hamas nella stri­scia di Gaza. In quell'occasione, Rantisi spiegò che "il suicidio è vietato dall'Islam, salvo specifiche situazioni". Lo ascoltavano, e condividevano con lui il podio, la dottoressa Yolanda Gampel, direttrice della Israeli Psychoanalitic Association all'Università di Tel Aviv, il dottor Moshe


 

Landsman, supervisore dell'assistenza psichiatrica al centro di Dimona (il centro dove l'esercito israeliano fabbrica le armi nucleari); inoltre, la dottoressa Helen Bambar e il dottor Rami Heilborn, che dirigono la fon­dazione medica per la cura delle vittime della tortura, fondata dall'Istitu­to Tavistock di Londra.

Per spiegare quale sia il lavoro di questi psichiatri militari fra coloro che il loro stato tortura, Joseph Brewda cita il dottor Jerrold Post, lo psichia­tra americano del Bulletin of Political Psychology, a proposito dei "ta­lent scouts di terroristi":

"Come i funzionari dei servizi di spionaggio valutano, nei potenziali can­didati a diventare agenti dei servizi, i loro punti vulnerabili (condizioni economiche, status vocazionale e desideri, ferite narcisistiche, ideologia, comportamento sociale, orientamenti sessuali), allo stesso modo i talent scouts di terroristi devono valutare i giovani potenziali terroristi in base ai loro fattori di rischio di violenza". Tali fattori di rischio (Post ne elen­ca 24) non sono identificati per essere soppressi, bensì per essere "use­fully mined", ossia "utilmente sfruttati". Il dottor Merari compie, di norma, appunto questo "lavoro" per le forze armate israeliane.

Hamas è nata ufficialmente il 14 dicembre 1987, quando lo sceicco suo ispiratore, Ahmed Yassin, emise il primo comunicato a nome del gruppo terroristico-fondamentalista. Ci si può chiedere come Hamas abbia potu­to sopravvivere nelle durissime condizioni dell'occupazione israeliana. La risposta - straordinariamente franca - è in uno scritto della dottoressa Anat Kurz, del Jaffee Center dell'Università (ebraica) di Tel Aviv. In un "Memorandum n. 48" pubblicato nel luglio 1997, la Kurz rivela che fu il governo Begin a fornire ad Hamas lo stato di associazione legale, già nel 1979, "in coerenza con la politica israeliana di rafforzare i gruppi isla­misti come contrappeso ai gruppi nazionalisti palestinesi [...] Israele ha sempre avuto un occhio di riguardo per l'Associazione Islamica [ossia Hamas]. Nel 1984, quando si scoprì che essa aveva costituito depositi se­greti di anni, i suoi capi furono imprigionati, ma le autorità israeliane non hanno soppresso l'associazione. Evidentemente, i politici israeliani


 

continuavano a considerarla un rivale di gruppi militanti e un elemento, utile dal punto di vista israeliano, di disgregazione tra i palestinesi".

Fino al 1993, ossia agli accordi di Oslo che avviarono il processo di pace, Hamas si è distinto solo per sporadiche aggressioni a militari israeliani. Solo dopo la firma degli accordi di Oslo il gruppo ha cominciato a usare terroristi suicidi, e questi contro la popolazione civile. Il tempismo di questi attacchi atroci è noto: essi accadono sempre al momento giusto per costituire una scusa, agli elementi della politica israeliana contrari al pro­

cesso di pace, che "trattare con gli arabi è inutile".

Alcuni esempi. Il 6 aprile 1994, Hamas fece saltare un'auto carica di esplosivi in una stazione d'autobus: otto morti e 44 feriti. Una settimana dopo, un terrorista suicida si fece saltare nella stazione dei bus di Hade­ra: 5 morti e 20 feriti. Ciò accadde mentre stava per riunirsi il tavolo di negoziato fra Israele e OLP per la firma degli accordi del Cairo: quelli che sancivano la nascita del proto-stato palestinese, e a cui il Likud (e Sharon) si opponevano ferocemente.

 Nell'ottobre 1994, Hamas creò la prima spaccatura fra il governo Rabin e Arafat, sequestrando un ufficiale israeliano, Nashon Wachsmann, che tenne prigioniero ("deliberatamente", sottolinea Brewda) nel territorio controllato dall'OLP: la cosa finì in un bagno di sangue (i rapitori furono uccisi con il rapito). Ma per la prima volta il primo ministro Rabin fu bollato come "nuovo Chamberlain" dai falchi come Sharon e Netanyahu, gli stessi che dipinsero Arafat come "nuovo Hitler". Una vera campagna d'odio, che non mancò di dare risultati: nell'ottobre 1995 Rabin, colpe­vole di aver avviato il processo di pace, fu trucidato da un estremista ebraico, "attentatore solitario".

Il rapimento dell'ufficiale fu personalmente attuato dal capo delle "Ope­razioni Speciali" di Hamas, Sallah Jadlallah. Il punto cruciale è che Sal­lah aveva ottenuto quella carica subito dopo essere stato dimesso da un manicomio israeliano.

Secondo Hamas, Jadlallah simulò la pazzia per evitare la prigione, dopo un suo arresto da parte degli israeliani. In qualche modo, il suo biografo psicologico israeliano Andrian Kreye concorda. In un articolo del 1995


 

("Un posto in Paradiso: il culto dei martiri a Gaza"), Kreye scrive che Sallah "durante il processo recitò la sua pazzia in modo così convincen­te, che stia madre scoppiò in lacrime, pur sapendo che suo figlio recita­va". Continua Kreye: "fnito il processo, l'esercito lo internò in un mani­comio. Qui [Jadlallah] perfezionò la sua parte, girando nudo e urlando per i reparti, gettandosi in testa il cibo, Due anni rimase nel manicomio fingendosi folle. Appena rilasciato, Imad Aqel, il capo di Qassam [è l'ala militare di Hamas] mise Sallah Jadallah a capo dell'unità "Operazioni Speciali". Da quel momento, questo giovane sottile è stato la mente di atti di durissima guerriglia e delle missioni più delicate".

Isaac Rabin fu ucciso da un giovane membro di un gruppo israeliano poco noto, chiamato Iyal. Arafat disse testualmente al giornale italiano Repub­blica: "Siamo sicuri che Rabin è stato ucciso da un gruppo estremista israeliano, proprio come noi sappiamo che esiste un patto tra estremisti israeliani e palestinesi per impedire la pace. Avishai Raviv, il capo del gruppo estremista ebraico Iyal, ha ammesso in un'intervista rilasciata il giorno precedente l'assassinio di Rabin, di essersi incontrato con estre­misti del Jihad. E ha aggiunto che non era la prima volta".

Nel gennaio 1998, Arafat è tornato sul tema in un'intervista al giornale giordano Al Ray: "Estremisti nei due schieramenti si fanno favori reci­proci. Netanyahu [allora primo ministro israeliano, del Likud] è lieto che esistano gli estremisti palestinesi: gli consentono di uscire dal vicolo cie­co in citi s'è cacciato, e lo isolano dalle pressioni internazionali".



 

Capitolo 23
CHI E L'ANTICRISTO?

Nel settembre 2002, la Casa Bianca ha proclamato pubblicamente la nuo­va "strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America"'. Inuti­le riportare per esteso le 31 pagine del documento: esso è un distillato della filosofia Lubavitcher e delle visioni strategiche di Rumsfeld. L'America vi afferma il suo diritto storico a usare la sua "ineguagliata superiorità militare" senza limite legale alcuno. Letteralmente, essa mi­naccia "l'uso della forza contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica contro qualunque stato" del pianeta che l'America consideri pe­ricoloso, e ciò in maniera "preventiva".

Un commentatore americano, William Pfaff del Los Angeles 7îmes 2, ha segnalato la più maligna novità di questa nuova dottrina: essa "liquida l'ordine che ha governato le relazioni internazionali fin dal trattato di Westfalia del 1648".

Il Trattato di Westfalia, che pose fine alla "Guerra dei Trent'Anni", rico­nobbe la legittimità delle autorità degli stati, grandi o piccoli. Di fatto, fu stabilito il principio della sovranità e della sua legalità: persone giuridi­che, gli stati potevano legarsi tra loro con trattati (come le personalità pri­vate con contratti), e questi trattati avevano forza legale. Nell'instabilità del mondo, fu un punto fermo decisivo. Un altissimo atto di civiltà, favo­

' "The National Security Strategy of United States of America", 20 settembre 2002. Il testo, si dice, è stato stilato da Condoleeza Rice, consigliera per la sicurezza nazionale. ' William Pfaff, "A radical rethink of international relations ", International Herald Tri­bune, 3 ottobre 2002.


 

revole alla pace. La fondazione di quel che Carl Schmitt chiamò il dirit­to pubblico europeo". Per secoli, governi e giuristi hanno ritenuto che solo riconoscendo la sovranità nazionale come fondamento della legge (interna e internazionale) si poteva evitare al mondo la condizione di guer­ra perpetua. La "Guerra dei Trent'Anni" era stata proprio questo: un con­flitto di tutti contro tutti, che non si riusciva a far finire.

Ora, dice Pfaff, la nuova dottrina americana ha questo di radicalmente allarmante; che essa - proclamando il "diritto" americano a colpire qua­lunque stato del pianeta - dichiara ogni altro stato illegittimo.

Se ne capiscano bene le conseguenze eversive. Con esso, l'America si dichiara svincolata, anzitutto, dal sistema di alleanze che essa stessa ha costruito dopo la seconda guerra mondiale. Per questo la nuova dottrina, ha detto un altro commentatore, Jom Hoaghland, "spaventa più gli alle­ati che i nemici" 3, e di fatto è intesa proprio a questo. La Nato, l'Europa, le nazioni del cosiddetto Occidente, per il fatto che non dispongono di forza militare adeguata alle "nuove sfide", non hanno più voce in capito­lo presso la Casa Bianca: da alleati diventano satelliti, oppure - se si pro­vano ad obiettare - potenziali nemici.

Ma nel più vasto mondo, è l'intero sistema di relazioni globali che viene liquidato. Sul mondo d'oggi si tende una vasta rete di trattati, convenzio­ni bilaterali e multilaterali, insomma impegni volontari fra stati sovrani che mirano a ridurre i conflitti fra potenze, a deferirli ad arbitrati ricono­sciuti, a comporre le vertenze col sistema negoziale. Mirano- in definiti­va - a ridurre la guerra ad "ultima ratio". L' America stessa, in passato, è stata fra i più attivi costruttori di quest'ordine. Dopo tutto, le Nazioni

' Si veda al proposito l'illuminante articolo di Vittorio Zucconi "Il grande gelo tra Usa ed Europa" su Repubblica (3 ottobre 2002). "La guerra preventiva è una sfida al siste­ma di alleanze e valori occidentali prima che ai nemici esterni e potenziali", scrive Zuc­coni. Il quale adombra, o ha il sospetto, che una motivazione non razionale, forse mes­sianica, si celi dietro la proclamazione unilaterale. "Quale necessità esiste[va] di fare un'affermazione così imperiosa e non richiesta? ... La risposta più ripetuta è che il vec­chio sistema non proteggeva più dalle nuove minacce, ma è anche la risposta meno con­vincente ".


 

Unite - l'ultima istanza della legalità internazionale - sono state forte mente volute dagli Usa. Oggi, la Casa Bianca si svincola da tutti gli impegni internazionali che essa stessa ha sottoscritto. E lo fa' in modo brutalmente esplicito. "L'uso della forza contro l'integrità territoriale e l'i dipendenza politica di uno stato" è vietato dalla Carta dell'Onu, se unilaterale. Se poi è "preventivo", nota Pfaff, esso configura uno specifici crimine di guerra secondo i principi stabiliti (dagli americani vincitori nel processo di Norimberga.

Per far comprendere ai suoi compatrioti la carica eversiva della nuova, dottrina Usa, Pfaff dice: solo un altro stato prima d'oggi ha denunciati l'ordine internazionale in questo modo radicale, ed è stato L'Unione Sovietica. Come unico stato "dei lavoratori", l'Urss si proclamò l'unico stato legittimo. Tutti gli altri stati erano illegittimi, perché vi governava "G borghesia". Mosca aveva con questi stati un rapporto di guerra perpetua, e non solo potenziale: operava per rovesciarne i governi, sia con la guerra sia con la rivoluzione interna.

L'America d'oggi fa' lo stesso. Per il momento verso l'Irak, ma non esclude in via di principio di operare - con mezzi aperti o coperti - per u "cambio di regime" nell'Iran, in Siria, in Arabia Saudita. E siccome l'elenco dell'"asse del male" è aperto e provvisorio, domani potrà intervenire anche in Germania e in Francia, ostinate a non capire che "le vecchie alleanze non proteggono più dalle nuove minacce" '. La sola differenza è a vantaggio della defunta Unione Sovietica: essa dichiarava illegittimo (e si diceva in guerra perpetua) ogni altro stato, in base all'interpretazione marxista della storia, presunta "scientifica". Quindi in base un'idea ritenuta vera. L' America d'oggi proclama ogni stato illegittime perché nessun altro stato possiede "la sua ineguagliata superiorità mili tare". Gli altri stati non sono da essa riconosciuti come interlocutori, solo

' Questa è appunto l'idea che Rumsfeld il JINSA hanno imposto dopo il 11 settembre l'America si trova di fronte a una nuova minaccia, che va affrontata con nuove alleanza  Rumsfeld è noto per "il suo disprezzo di ogni trattato internazionale" sul controllo d gli armamenti, e per la sua "sfiducia" verso ogni altra nazione, alleati compresi.


 

 

perché non hanno la forza. La nuova dottrina americana è una mera dot­trina della forza. La forza come "prima ratio", che per Ortega y Gasset era "il carattere specifico della barbarie" 5; ecco quel che l'America in­troduce nel mondo.

Ma è l'America che parla qui, con questa voce nuova e allarmante? Nelle pagine precedenti, abbiamo visto come il gruppo ebraico si sia in­filtrato nei centri del potere americani, abbia preso possesso della "mac­china", e l'abbia volta ai suoi scopi - o ai suoi sogni messianici. Abbia­mo identificato i fanatici che danno voce da ventriloqui alla figura potente dell'America ferita dopo 1' 11 settembre. Abbiamo accumulato il sospet­to che l' I 1 settembre sia stato perpetrato non dallo spettrale nemico ester­no musulmano, ma da concrete forze "interne" all'America, alleate con i ventriloqui. Sappiamo inoltre qual è il modello della nuova dottrina ame­ricana. È quello che Sharon applica ferocemente in Palestina. I palesti­nesi non hanno la forza, dunque non avranno mai uno stato legittimo. Israele li domina con la forza, non offre nient'altro, e minaccia con la sua "superiorità militare" ogni altro stato islamico nell'area. Israele vuole la guerra perpetua sul mondo dei noachici. Il "Regno d'Israele" futuro e im­minente è infatti per i messianici ebraici "conquista e avanzata", non compromesso e cessione. Il "Regno d'Israele" è il regno della forza sen­za limiti e assoluta, dove gli altri non hanno diritti. E il regno messianico che si attua oggi: e per instaurarlo vengono strumen­talizzate le migliori virtù americane, persino la sua fede religiosa nel pro­prio compito mondiale, la sua formidabile energia costruttiva. La splendi­da democrazia americana, la plurale libertà della sua stampa - i suoi storici motivi d'orgoglio - vengono utilizzati per imporre al mondo un potere fon­dato sulla menzogna più radicale, e la guerra perpetua senza contropartite. Non ci suggerisce qualcosa, questa nuova situazione mondiale? Non ri­corda qualcosa - qualcosa di allarmante - a noi cristiani "romani"?

s Ortega y Gasset ha scritto che tutto lo sforzo di civilizzazione dell'Occidente è consi­stito nello sforzo di respingere la forza ai margini, di farne 1"ultima ratio". Adottare la forza come "prima ratio" è il carattere specifico della barbarie


 

Vi è nell'Apocalisse un passo che descrive fin troppo precisamente que­sta situazione. Un passo che si riferisce ai tempi ultimi, ai tempi del do­minio incontrastato del "padre della menzogna", della "parusia dell'ini­quo" 6. Ecco i passi.

"Vidi una bestia che saliva dal mare, e aveva dieci corna e sette teste (... J. Il dragone comunicò ad essa la propria potenza e il suo trono con pote­stà grande. Ora una delle teste appariva come colpita a morte, ma la sua ferita mortale fu guarita. Per questo tutta la terra fu presa d'ammirazio­ne (... J e adorarono la bestia dicendo: "Chi è simile alla bestia? E chi può combattere contro di essa?" (13,1-4) Oggi, noi sappiamo che esiste nel mondo una tal bestia: nessuno "può combattere contro di essa" perché la sua superiorità militare è "inegua­gliabile". Sembrava colpita a morte, dopo l' 11 settembre: ma eccola gua­rita, e più potente di prima. Oggi nessuno "è simile ad essa", non c'è al­tro stato che proclami la sua dottrina della forza assoluta, preventiva, che arroghi solo per sé la sovranità. La "Bestia" ha ricevuto dal dragone "la propria potenza e potestà" grande. E noi sappiamo che il dragone è co­lui che disse a Cristo nel deserto: "Tutti i regni e il potere terrestri sono dati a me, e io li do a chi voglio". Ma l'Apocalisse ci avverte di guardare dietro alla bestia. A qualcuno che è nascosto dietro la sua massa impo­nente.

"Poi vidi un'altra bestia salire dalla terra. Aveva due corna come l'agnel­lo, ma parlava come un dragone. Esercitava tutta l'autorità della prima bestia e per conto di essa" (13, 11-12).

Dunque la prima "Bestia", la fortissima, la ineguagliabile in potenza, non è l'attore primario di questa storia sacra spaventosa. Essa è agita da un altro. Essa è un "simulacro" (Apc.13, 15), ed è quell'altro a "infondere

 

 

' La "parusia", ossia manifestazione dell'uomo dell'iniquità, l'Anticristo, è preconizzata da san Paolo nella 1I Tessalonicesi (2, 3 e segg.). Ma prima, dice Paolo, deve essere "tolto di mezzo ciò che trattiene" (katechon) la manifestazione del potere anticristiano. Il miste­rioso katechon fu identificato da san Tommaso nel "romanum imperium", ossia nel potere statale dove la forza pubblica è al servizio del diritto, sì da impedire il dilagare del male. L'America di Bush abolisce appunto la subordinazione della forza al diritto.


 

lo spirito al simulacro in modo che potesse parlare". E quella bestia è più piccola. Somiglia all'agnello, l'innocente agnello immolato nel tempio d'Israele. "Ma parla come il dragone". È questo l'impostore supremo" ed ultimo.

La riconoscete? Questa bestia piccola e apparentemente innocente, ci è detto, ha poteri prodigiosi. Essa può fare in modo che nessuno possa "vendere o comprare, all'infuori di coloro che portano il marchio della bestia, o il numero del suo nome". II suo potere è finanziario. Come quel­lo fondato sul dollaro?

Osereste dunque dirne il nome, visto che il falso agnello può ridurvi alla fame e alla morte?

Noi non ne abbiamo il coraggio. Ma quel nome, lo pronunciarono con molto anticipo i profeti. Isaia li apostrofa così in perpetuo, dalla notte dei secoli:

"Udite la parola del Signore voi arroganti,

che governate questo popolo e abitate Gerusalemme!

Giacché voi dite: "Abbiamo concluso un patto con la morte

 E con lo sceòl abbiamo stretto alleanza.

Quando passerà lo straripante flagello non ci toccherà,

 giacché abbiamo fatto della menzogna il nostro rifugio

e ci siamo riparati nella falsità" (Is., 28, 14-15).

La parola di Isaia scuote il nostro oggi. Parla per l'intera storia, dunque anche per l'attualità più bruciante:

"La vigna del Signore degli Eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi" (Is. 5, 1-7)

Sono ormai anni, decenni, che noi cristiani - noi che sappiamo che il Si­gnore si attende giustizia e rettitudine - sentiamo grida di oppressi levar­si dalla Palestina. E lo spargimento di sangue di chi chiede "giustizia" si fa sempre più spietato e ostinato. Il sangue che viene sparso è quello dei discendenti d'Ismaele, il figlio che ad Abramo generò la schiava Agar: sappiamo - o dovremmo sapere - che è dunque sangue di Abramo, non


 

meno di quello dei giudei. La vigna del Signore è ostinatamente profa­nata da quel sangue prediletto. E sappiamo - ma come cattolici vili e inet­ti non vogliamo ricordare - che un compito fu assegnato a quei figli di Abramo, alla discendenza araba di Ismaele. È nel Genesi (16,12).

"Egli sarà come un onagro nella steppa

 la sua mano sarà contro di tutti

 e la mano di tutti contro di lui;

e abiterà contro tutti i suoi fratelli"

Ad Abramo il Signore ha promesso a proposito di Ismaele, il capostipite degli arabi:

"Io ne farò una grande nazione perché è tua discendenza" (Genesi, 20, 13).

Colui che avrebbe fatto dei discendenti d'Ismaele, le disperse tribù be­duine, "una grande nazione", non era ancora nato. Due millenni doveva­no passare, perché Muhammad apparisse nel mondo. Fu lui a dire ai suoi: "A voi è prescritta la guerra, sia che vi piaccia, sia che vi dispiaccia". Per molti secoli, ai musulmani, la guerra è "piaciuta". Oggi probabilmen­te non piace più, e tuttavia devono farla contro la massima potenza mon­diale e il falso agnello, che ha a disposizione tutti i mezzi prodigiosi del­la potenza. I tempi ultimi. La gente dell'Islam conosce la parabola dei la­voratori della vigna, una parabola già pronunciata da Cristo: i lavoratori del mattino, quelli del pomeriggio, quelli della sera, l'ultima ora. La più breve. Ma sarà la più dura, e i musulmani credono di essere i lavoratori scelti per l'ultima ora, che devono guadagnarsi la stessa paga che ebbero i primi (gli ebrei) e i secondi (i cristiani). Gli arabi - non tutti i musulmani, ma i beduini, i palestinesi, discendenti diretti di Ismaele - compiono sotto i nostri occhi il duro lavoro dell'ultima ora. Con sangue e lacrime. Lo fanno senza gloria, senza riconoscimento del mondo, anzi da tutti spregiati e maledetti. Contro poteri mondani invinci­bili. Contrastano il possesso sulla "terra santa". Coi loro corpi stessi. Ver­sano il sangue di Abramo: il loro, e dei loro fratelli nemici.

 


 

I cristiani stessi li condannano, ultimamente. Ma io sospetto che quel loro versamento di sangue non sia sgradito al terribile Dio della Bibbia, al duro, non compassionevole, Dio di Abramo. Negli ultimi tempi i musul­mani vengono additati dal mondo intero come 1-'asse del male", e dipin­ti (dai protestanti americani ma anche da troppi "buoni" cattolici) come l'Anticristo. Dubito che il giudizio di Dio sia lo stesso. I giudizi di Dio non sono quelli di un'umanità sviata, che crede facilmente alle menzo­gne del potere, e si piega alla forza "ineguagliabile". Egli chiedeva rettitudine e vede nella sua vigna "spargimento di sangue". Voleva giustizia e sente "grida di oppressi".

Oso arrischiare che la vittoria, alla fine, non sarà di chi si sente invinci­bile oggi, perché "ha preso rifugio nell'iniquità". Come cristiano non posso portare altre prove che le parole di Paolo: "Quando diranno pace e sicurezza, allora verrà la fine". Proprio allora, quando si sentiranno si­curi nella pace delle loro armi superiori.

O le parole minacciose di Isaia ai suoi israeliti. Perché Isaia fulmina, dalla notte dei secoli, coloro che oggi pretendono di creare il "Regno" d' Israe­le accelerando gli eventi con la forza e l'astuzia, e forzando - come i Lu­bavitcher - la mano del "signore degli eserciti":

 

"Guai a quelli che dicono: "Si affretti, si acceleri l'opera Sua

affinché la possiamo vedere;

si avvicini, si realizzi il progetto del santo d'Israele

e lo riconosceremo" (Is. 5, 19).

 

Isaia lancia una maledizione specifica contro quel che fa', oggi, il gover­no d'Israele ai palestinesi, gli espropri eseguiti col diritto della forza:

 

"Guai a coloro che aggiungono casa a casa che

 congiungono campo a campo,

finché non vi sia spazio

e rimaniate voi soli ad abitare in mezzo al paese" (5, 8-9)


 

Isaia addita agli ingiusti figli di Abramo il costo della loro arroganza:

 

"Giacché voi ripudiate questo oracolo,

confidate in ciò che è perverso e tortuoso

e vi appoggiate su ciò.

Perciò la vostra colpa sarà per voi come una breccia nascosta

 Che fa' rigonfia una muraglia

E la fa' crollare in un istante, subitamente" (Is. 30, 12).

 

Oggi - che è apparsa nel mondo una forza invincibile, una superpotenza ineguagliabile, però che non agisce in proprio ma è "agita" dal falso agnello - queste parole sono la sola luce nell'ora oscura.